Chi è Paul Alexander, l’uomo malato di poliomielite che da oltre 70 anni vive dentro un polmone d’acciaio

Colpito da una grave forma di poliomielite, da quando aveva 6 anni Paul Alexander vive dentro un polmone d’acciaio: un macchinario che gli permette di respirare. Altrimenti, questo semplice gesto gli sarebbe impossibile a causa della paralisi provocatagli dalla malattia.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Kevin Ben Alì Zinati 9 Agosto 2023
* ultima modifica il 09/08/2023

Un’intera vita. La sua, Paul Alexander l’ha trascorsa dentro un polmone d’acciaio.

Una struttura a forma di capsula che ospita il suo corpo da quando Paul aveva 6 anni e una grave forma di poliomielite gli ha rubato le abilità motorie e la capacità di respirare in autonomia.

E oggi Paul Alexander da oltre 60 anni vive ancora dentro a quel polmone d’acciaio. La sua vita non si è fermata al 1952, l’anno in cui la poliomielite l’aveva lascato paralizzato dal collo in giù. Paul ricorda tutto di quei momenti. Era arrivato in ospedale d’urgenza e un medico texano si accorse che faticava tantissimo a respirare.

Anzi: era come se il suo corpo non riuscisse a compiere il gesto più automatico, banale, naturale e imprescindibile per la sopravvivenza perché Paul praticamente non riusciva proprio a prender fiato e mandarlo nei polmoni.

La poliomielite infatti, contagiosissima malattia provocata da tre tipi di polio-virus (1, 2 e 3) appartenenti alla famiglia degli enterovirus, può provocare la paralisi del midollo spinale e del tronco cerebrale.

Dopo una sintomatologia iniziale fatta dai infiammazione alla gola, febbre, stanchezza, nausea e mal di testa e stomaco, il poliovirus finisce per colpire il sistema nervoso centrale e distruggere le cellule neurali.

Questo causa una paralisi a livello muscolare che può rendere molto faticosi i movimenti al punto da impedirli totalmente. Nei casi più gravi, il virus riesce addirittura a paralizzare i muscoli innervati dai nervi craniali, riducendo la capacità respiratoria, di ingestione e di parola.

Paul, così, fu immediatamente trasferito in una macchina per la ventilazione artificiale, dentro la quale resta sdraiato con solamente la testa lasciata fuori.

Il macchinario funziona creando il vuoto per aiutare i pazienti il cui sistema nervoso centrale e la cui funzione respiratoria sono stati devastati dalla poliomielite ad aspirare meccanicamente l’ossigeno all’interno dei polmoni.

La vita di Paul da allora procede dentro a questo immenso polmone d’acciaio anche se non sono mancati periodi – brevi purtroppo – in cui ha potuto farne a meno.

Grazie all’aiuto di un fisioterapista, infatti, Paul è riuscito ad apprendere una tecnica nota come “respiro glossofaringeo” (detto anche “respiro a rana”) con cui è in grado di inghiottire un po’ d’aria nei polmoni e restare lontano dalla sua “casa” di acciaio.

Nelle sue complicate condizioni, Paul comunque non si è mai dato per vinto. Col cavolo. Si è diplomato al liceo di Dallas, diventando il primo a farcela senza frequentare le lezioni.

Qualche anno dopo è riuscito a laurearsi all’Università del Texas di Austin e a lavorare come avvocato. Alle udienze in tribunale si presentava sempre vestito elegante e supportato da una sedia a rotelle modificata appositamente per le sue condizioni.

ricerca

Nel 2020, dopo un lavoro di quasi 8 anni, ha pubblicato un libro autobiografico (“Three Minutes for a Dog") scritto dettando le parole a un amico e digitando le lettere su una tastiera grazie a una bacchetta di plastica mossa con la bocca.

Ha detto addio a entrambi i suoi genitori, suo fratello e persino al suo primo polmone di ferro originale, che nel 2015 ha cominciato a funzionare male e a perdere aria.

È sopravvissuto alla pandemia di Covid-19, ha viaggiato in aereo, vissuto da solo, trovato l’amore, pregato in chiesa, visto l’oceano, organizzato un sit-in per i diritti dei disabili e, come racconta il DailyMail, si è persino ritrovato in uno strip club. Paul, insomma, ha vissuto la sua vita.

Fonte | Istituto Superiore di Sanità

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.