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Come funziona la radiografia (RX) e quali sono i rischi legati alle radiazioni ionizzanti

La radiografia (RX), nota anche come lastra, è un esame diagnostico tra i più diffusi, utile in particolare per ricercare e monitorare le fratture scheletriche, ma non solo. Questa indagine sfrutta le radiazioni ionizzanti per ottenere rappresentazioni bidimensionali delle parti del corpo esaminate, dal torace al braccio: ma quali rischi presenta questa pratica e quante radiografie è consigliato fare in un anno? Vediamo la risposta a queste ed altre domande, cercando di capire cosa si vede con questo esame e quali sono i suoi limiti.
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Dott. Maurizio Cè Medico chirurgo
9 Agosto 2021 * ultima modifica il 09/08/2021

Quando pensiamo ad una radiografia (la cosiddetta RX), la prima immagine che ci viene in mente è probabilmente la classica radiografia del torace che il medico di famiglia ci prescrive nel sospetto di una polmonite, o ancora, la radiografia del braccio alla quale ci hanno sottoposto nel sospetto di una frattura. Nonostante negli ultimi decenni abbiamo assistito all’affermarsi di metodiche radiologiche tecnicamente più sofisticate e dal maggiore potere diagnostico (risonanza magnetica, tomografia computerizzata ed ecografia), la vecchia e cara radiografia rappresenta a tutt’oggi un aiuto indispensabile nella pratica clinica, nonché l’indagine di primo livello più appropriata in determinati contesti quali, per esempio, la ricerca e il monitoraggio delle fratture scheletriche.

Definizione

La radiografia (in passato chiamata anche lastra, poiché all’inizio si utilizzavano lastre fotografiche in vetro) è l’esame diagnostico appannaggio della cosiddetta radiologia tradizionale, quella branca della radiologia che si avvale dell’uso di radiazioni ionizzanti al fine di ottenere rappresentazioni bidimensionali di un distretto corporeo a scopo diagnostico.

Attualmente la radiologia comprende numerose metodiche sia diagnostiche che terapeutiche (a tal proposito si distingue la radiologia diagnostica, o diagnostica per immagini, dalla radiologia interventistica), alcune delle quali, come l’ecografia o la risonanza magnetica, non utilizzano  radiazioni ionizzanti. Tuttavia, nonostante i progressi strabilianti, la medicina moderna è ancora fortemente debitrice nei confronti degli studi pionieristici nel campo delle radiazioni e delle loro applicazioni, di studiosi del calibro di Roentgen e Pierre e Marie Curie.

Ma cosa sono le radiazioni ionizzanti? Innanzitutto, le radiazioni sono una forma di energia. Le radiazioni ionizzanti sono un particolare tipo di radiazioni in grado di interagire con la struttura della materia, tra cui anche i tessuti umani, alterandone le caratteristiche. Da questa particolare proprietà ne derivano una serie di effetti potenziali, alcuni dei quali assolutamente desiderabili (per l'appunto, la diagnostica radiologica o la radioterapia), altri assolutamente deleteri (si pensi ai grandi incidenti nucleari). I raggi X, infine, sono un particolare tipo di radiazione ionizzante.

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Come funziona

Entrando nel merito, un apparecchio radiografico è composto schematicamente da tre elementi:

  1. una sorgente, detta tubo radiogeno, con il compito di emettere il fascio di raggi X,
  2. un collimatore, costituito da lamelle di piombo, con lo scopo di indirizzare il fascio nella direzione prescelta bloccando le radiazioni superflue,
  3. un rilevatore, in grado di registrare le informazioni.

Come intuibile, la parte del corpo da studiare viene posta tra la sorgente e il rilevatore. Il principio di formazione dell’immagine è il seguente: i raggi X che attraversano il corpo umano (o un qualsiasi altro materiale) subiscono un’attenuazione differente a seconda della densità dei tessuti attraversati (maggiore la densità, maggiore l’attenuazione).

Ma come si forma l’immagine radiografica? Le immagini della radiologia tradizionale sono immagini in bianco e nero, o meglio, in scala di grigi. Il rilevatore, un tempo di tipo analogico, era costituito da materiali appositi che reagivano all’arrivo del fascio radiante, un po’ come accade alle pellicole delle vecchie macchine fotografiche quando vengono esposte alla luce (la quale, guarda caso, è un tipo di radiazione: la radiazione luminosa). Ciò che accade è che il fascio di radiazioni impressiona la pellicola fotografica in modo tanto più marcato quanto meno risulta attenuato dall’attraversamento dei tessuti.

Cosa si vede

A questo punto, è facile comprendere per quale motivo a un estremo dello spettro troviamo l’osso, ovvero il tessuto che oppone il maggiore ostacolo al passaggio dei raggi (possiede, infatti, il più alto coefficiente di attenuazione lineare), il quale appare bianco, mentre all’opposto troviamo l’aria, che si lascia attraversare liberamente dal fascio incidente e pertanto è in grado di impressionare al massimo la pellicola, con il risultato che essa risulta nera. Riprendendo l’esempio della radiografia del torace, i polmoni normali, che sono pieni di aria, appaiono neri o “radiotrasparenti”. Quando, in corso di un evento infettivo, come la polmonite, all’interno dei polmoni si accumulano liquido e cellule infiammatorie, il radiogramma mostra un “focolaio” di maggiore attenuazione, normalmente indicato come addensamento polmonare. Oltre allo studio di primo livello del torace, la radiologia tradizionale è all’inquadramento dei pazienti in cui si sospetta una frattura scheletrica.

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Un medico illustra al paziente i risultati di una radiografia al torace digitalizzata.

La radiografia digitale

Con buona pace dei nostalgici delle vecchie tecniche analogiche, la radiologia di oggi è completamente digitalizzata: il rilevatore (digitale) registra un profilo di densità assegnando ad ogni punto dello spazio bidimensionale un valore che corrisponde al grado di attenuazione del fascio radiante per quel punto. L’insieme dei dati va a comporre la nostra immagine radiologica, che può essere archiviata in formato digitale e visualizzata sullo schermo di refertazione, ove ad ogni valore di attenuazione registrato viene assegnato un diverso livello di grigio. La digitalizzazione si è affermata velocemente per i suoi innumerevoli vantaggi gestionali: archiviazione computerizzata, recuperabilità rapidissima, consultazione simultanea a distanza, possibilità di rielaborazione.

Limiti della radiografia

Un aspetto fondamentale delle immagini radiologiche tradizionali è che si tratta di immagini proiettive o, in altre parole, di rappresentazioni bidimensionali di quella realtà tridimensionale che è il corpo umano. Per farvi un’idea, immaginate di osservare un libro frontalmente e di poter vedere in trasparenza tutte le lettere: quello che otterreste è un effetto di sommazione per cui tutte le informazioni risulterebbero “schiacciate” sullo stesso piano.

Questo effetto dipende dal fatto che il fascio incidente, attraversando un determinato distretto anatomico, subisce l’attenuazione di tutti i tessuti che incontra lungo il suo tragitto, con la conseguenza che quando raggiunge il rilevatore porta con sé questa informazione. Per esempio, sul radiogramma del torace, un piccolo nodulo polmonare (più denso, e quindi più bianco rispetto al polmone normalmente areato) può non essere visibile se localizzato dietro ad un arco costale, proprio perché l’attenuazione esercitata dell’osso, una volta che viene compressa in due dimensioni, copre l’immagine del nodulo. Al contrario, l’immagine proiettiva del capezzolo mammario (una struttura anatomica normale), o di una moneta nel taschino della camicia, può mimare un nodulo polmonare, quando in realtà è localizzata sulla superficie cutanea e non all’interno del torace.

Per ovviare parzialmente a questo problema ci si avvale di diverse proiezioni dello stesso distretto anatomico, nel caso del torace queste tipicamente sono due: quella antero-posteriore e quella latero-laterale. A questo punto dovrebbero essere più chiare non solo le potenzialità delle indagini radiologiche tradizionali, ma anche i limiti. Dobbiamo aspettarci, a ragion veduta, che alcuni reperti descritti nelle nostre radiografie non trovino conferma nei successivi approfondimenti diagnostici, per esempio proprio a causa di un effetto “proiettivo”. Al contrario, è frequente che un’indagine TC mostri delle alterazioni patologiche a fronte di una radiografia negativa, cioè normale. Questa discrepanza deve essere messa in relazione al diverso potere diagnostico della metodica e non corrisponde ad un errore nell’esecuzione o nell'interpretazione dell’esame.

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Radiazioni ionizzanti e rischi

Poichè le radiazioni ionizzanti possono alterare la struttura della materia, delle cellule e dei tessuti di cui siamo composti, sono considerate cancerogene, ovvero in grado di aumentare la probabilità di sviluppare determinati tipi di cancro. Per questo motivo, occorre spendere alcune parole in merito. Iniziamo da una premessa importante: le radiazioni sono un fenomeno naturale.

Per esempio, siamo costantemente esposti alla radiazione cosmica (proveniente dallo spazio, e in particolare dal Sole) per il solo fatto di esistere. In Italia siamo esposti a circa 2,5 mSv (si legge “millisivert”, unità di misura correlata agli effetti delle radiazioni sull'organismo) all’anno di raggi cosmici. Una radiografia, per intenderci, espone a circa 0,1-1 mSv, a seconda del distretto e dell’intensità del fascio. In confronto, una TC del cranio espone a circa 2 mSv, una TC del torace a 10 mSv e così via. La domanda che il clinico si deve porre prima di prescrivere (e che il paziente si deve porre prima di richiedere) un’indagine radiologica è la seguente: è l’esame appropriato per rispondere al quesito diagnostico? A questo proposito, non esiste un vero e proprio limite di radiografie che si possono fare in un anno. Il numero di esami a cui un paziente si sottopone deve essere rapportato più in generale alla sua storia clinica e valutato in una prospettiva di bilancio costi/benefici.

In generale, in Italia siamo molto attenti al tema della radioprotezione, forti anche di una legislazione recentemente aggiornata in materia. Il principio guida per i pazienti e per i medici dovrebbe essere quello di mantenere le esposizioni al livello più basso ragionevolmente possibile ma allo stesso tempo sufficiente a dirimere il quesito diagnostico.

Le donne in gravidanza rappresentano una categoria di pazienti particolarmente a rischio in quanto le radiazioni sono in grado di determinare danni potenzialmente irreversibili al feto, e questo è particolarmente vero nel primo trimestre di gravidanza, che rappresenta il periodo più critico per la formazione degli organi e apparati. In queste pazienti si cerca di optare per esami di diagnostica per immagini che non utilizzano radiazioni ionizzanti, come l’ecografia e la risonanza magnetica.

Tuttavia, ancora una volta, è il contesto clinico ad orientare le scelte diagnostiche: in casi selezionati infatti, il medico, tenuto conto sia dei rischi per il feto (derivanti dall’esecuzione dell’esame) che di quelli per la madre (derivanti dal ritardo diagnostico o dalla mancata diagnosi), può giudicare necessaria l’esecuzione di un’indagine che si avvale di radiazioni ionizzanti. Si tratta quasi sempre, va precisato, di indagini TC (tomografia computerizzata) eseguite nel contesto di emergenza-urgenza, in cui le condizioni cliniche instabili rendono l’approfondimento diagnostico non ulteriormente procrastinabile. In tutti gli altri casi, le tecniche alternative come l’ecografia e la risonanza magnetica, sono sufficienti a dirimere la maggior parte dei dubbi diagnostici.

Laureato con Lode in medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Milano con una tesi sull’organizzazione anatomo-funzionale del linguaggio umano, ha altro…
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