COP28, il retroscena sulle intenzioni israeliane e russe. Ispi a Ohga: “Israele mantiene da anni una politica ambientale ambigua”

Gli scenari di conflitto non lasciano spazio a narrazioni semplicistiche, è il caso delle guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e le forze armate di Hamas. In un contesto del genere riuscirà la diplomazia internazionale, che si riunirà a Dubai per la COP28, a raggiungere dei risultati?
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Rubrica a cura di Francesco Castagna
21 Novembre 2023
Intervista a Aldo Ferrari e Francesco Petronella Rispettivamente storico e politologo, responsabile del programma Russia, Caucaso e Asia centrale e giornalista e analista della redazione online dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

In un mondo che si riscalda sempre più velocemente, c'è un conflitto congelato che non trova soluzioni e una guerra scoppiata da poco meno di due mesi che ha riacceso il clima di tensione in Medio Oriente.

C'è chi dice che la guerra sia soltanto l'estensione di tensioni già esistenti tra due o più Paesi, ma per capire se questa tesi sia vera o meno bisognerebbe seguire ogni aspetto che porta poi allo scoppio di un conflitto. In guerra si va per molteplici ragioni: per prestigio, per questioni energetiche, per politica. Nel frattempo però la Terra viene alterata anche da azioni di questo tipo, proprio nel momento in cui stiamo cercando di scongiurare il più possibile l'aumento della temperatura oltre i 2°C. I conflitti generano distruzione: di vite umane, di habitat, causando inoltre inquinamento atmosferico in luoghi in cui poi sarà difficile un ritorno allo status precedente nel breve termine. È in questo contesto che si terrà la COP28 di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti,  una conferenza già difficile in partenza, a causa dello scontro sempre più concreto tra due blocchi ideologici e della presidenza di Sultan Al Jaber, CEO di ADNOC, l'azienda petrolifera statale emiratina.

Pensiamo al lavoro svolto da Greenpeace e dall'ong ucraina "Ecoaction", per denunciare gli impatti sugli ecosistemi a causa dello scoppio del conflitto a seguito dell'invasione della Russia in Ucraina. "Dall’inizio delle ostilità sono stati danneggiati circa il 20 per cento delle aree naturali protettedel Paese, e 3 milioni di ettari di foresta, mentre altri 450 mila ettari si trovano in zone occupate o interessate dai combattimenti", scrive Greenpeace. Oltre all'ingente quantità di CO2 immessa in aria a causa dell'utilizzo dei mezzi di natura bellica, il conflitto ha portato incendi, danneggiato gli habitat e inquinato l’acqua, l’aria e il suolo. I bombardamenti dei siti industriali, allo stesso tempo, hanno provocato ulteriori contaminazioni, come piogge acide e l'inquinamento di catene alimentari di esseri umani e animali.

Anche il conflitto scoppiato tra Israele e le forze militari di Hamas ha finora generato danni di carattere ambientale, oltre alle politiche perpetrate in maniera strutturale dalle potenze in guerra, si pensi alle azioni di water grabbing denunciate già in passato da Amnesty International.

Non è facile capire se i conflitti si risolveranno nel breve termine, allo stesso tempo però è importante, se non fondamentale, capire se gli incontri che si terranno a Dubai riusciranno in qualche modo a smuovere la situazione attuale. Ohga lo ha chiesto a ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Ci hanno risposto Aldo Ferrari, storico e politologo, responsabile del programma Russia, Caucaso e Asia centrale presso l'ISPI, e Francesco Petronella, giornalista e analista della redazione online dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.

Petronella, come pensi che possa porsi Israele nei confronti dei temi ambientali, con un conflitto in corso?

Nella guerra in Medio Oriente l’ambiente finirà in basso nelle agende delle cancellerie di tutto il mondo, in particolare di Israele. Questo significa che, chiaramente, tutto ciò che riguarda l’azione climatica finirà in fondo all’agenda. Il Paese è impegnato in prima persona in ciò che sta accadendo, avendo subito un attacco da parte di Hamas il 7 ottobre e avendo risposto in maniera durissima, come stiamo vedendo, con operazioni di aria e di terra nella striscia di Gaza. Israele ha ratificato nel 2016 gli Accordi di Parigi sul clima, ma da allora ha mantenuto una posizione quasi ambigua sugli impegni ambientali concreti.

Pensa che la situazione attuale in Medio Oriente possa emergere durante il summit sui cambiamenti climatici? Se sì, in che modo?

Questa situazione rischia di rendere ancora più evidente un distacco dagli impegni di questo tipo, perché la guerra, inevitabilmente, riduce gli spazi di manovra. Tanto più che la COP28, che si terrà negli Emirati Arabi, avrà un significato geopolitico molto importante sotto questo aspetto. Il Paese è tra gli Stati che hanno normalizzato le relazioni diplomatiche con Israele, a partire dal 2020 con i cosiddetti “Accordi di Abramo”, probabilmente gli Emirati Arabi Uniti spingeranno affinché il summit si tenga comunque e che porti a risultati concreti, ma non si può escludere che ci siano dei contrasti o addirittura delle defezioni importanti dall’incontro, che è stato annunciato come uno dei più grandi rispetto alle COP degli anni passati.

Viceversa, crede che la COP possa influire sugli scenari geopolitici attuali?

La posizione emiratina in questo senso, riguardante sia la COP in sé che lo scenario geopolitico del Paese, è stata sintetizzata da un ministro che, dopo l’inizio della guerra tra Hamas e Israele, ha dichiarato che gli Emirati Arabi non mescolano la politica e gli affari. Penso che questa sarà la linea che il Paese terrà anche in merito alla COP: un conto è condannare quello che Israele sta facendo a Gaza, un altro è annullare progetti così importanti e coinvolgenti per il governo di Tel Aviv.

I palestinesi sono prevalentemente una popolazione di gente che lavora la terra, con la siccità, la crisi idrica e la contesa delle fonti d'acqua la situazione si sta aggravando sempre di più negli ultimi anni. È un tema che interessa alle Nazioni Unite o no?

Per quanto riguarda i palestinesi, sono tra le popolazioni che più soffrono la siccità, la crisi idrica e la questione delle fonti d’acqua, temi centrali da sempre nella geopolitica del Medioriente. Non solo per quanto riguarda Israele e i palestinesi, ma anche in merito ai rapporti con altri Stati, come la Siria, il Libano etc. È difficile dire quanta attenzione abbia il tema in questo momento, poiché c’è una guerra sul campo, che avrà sicuramente dei risvolti anche in questo settore. Il tema dell’acqua è stato al centro del dibattito e dell’attualità internazionale a partire dalla prima settimana del conflitto. Già pochi giorni dopo dal 7 ottobre Israele ha tagliato l’approvvigionamento idrico e l’elettricità alla Striscia di Gaza.

RUSSIA 

Ferrari, in che modo la Russia potrebbe cercare di influenzare lo sviluppo del mercato delle rinnovabili, al fine di tutelare il suo mercato del gas?

È chiaro che la Russia, essendo uno dei più grandi fornitori di gas e di petrolio, ha tutto l’interesse a rallentare la transizione energetica. Si muove in questa direzione di freno, però le sue capacità reali, anche di un Paese così grande e importante, sono limitate. Il problema è che la Russia attualmente non ha in mano strumenti particolarmente forti, è esclusa da buona parte della comunità internazionale, con altri Paesi non ha bisogno di una politica particolare perché gli Stati con cui fa accordi commerciali dal punto di vista energetico hanno bisogno del suo gas e del suo petrolio (Cina e India). Sostanzialmente la Russia ha già rimediato a gran parte delle perdite derivate dalla rottura degli accordi con l’Occidente, rimediando con i Paesi asiatici. Inoltre, la Russia in futuro potrà stringere accordi energetici anche con Stati emergenti.

Io non credo che la Russia in questo momento abbia strumenti validi per influenzare le politiche degli altri Paesi, anche perché -a livello geopolitico- l’influenza avviene quando c’è una capacità forte di influenza. Se oggi noi acquistiamo tanto GNL (gas liquefatto) dagli Stati Uniti, è perché siamo in un contesto geopolitico nel quale noi dipendiamo molto, forse completamente, da loro. Come italiani ed europei stiamo facendo delle scelte solo parzialmente compatibili con il nostro interesse economico, spiegabili con la nostra dipendenza ampia dagli Stati Uniti.

È possibile che conferenze sul clima come le COP riescano a influenzare la politica dei Paesi che si trovano in conflitto? 

Lo escluderei nella maniera più totale che le COP riescano a influenzare in qualche modo le politiche dei Paesi, soprattutto di attori come la Russia, che si muove sulla base di sue logiche, che prima ancora di essere economiche sono politiche e culturali. L’azione della Russia in Ucraina non ha nessun fondamento economico, tutt’altro. Putin l’ha fatta contro il suo interesse economico, eppure l’ha fatta ugualmente, per questioni di prestigio e controllo di territorio. Noi da tanti anni siamo perplessi di fronte a una Russia che continua a espandersi, sorprendendoci di scelte che ci sembrano insensate, perché le leggiamo con gli occhi degli occidentali.

La Russia ha una straripante potenza energetica, continua ad averla, e può permettersi anche di intraprendere azioni politiche irrazionali, senza prestare particolare attenzione alle ricadute.

Per un attore come la Russia quindi escluderei che conferenze di questo tipo possano determinare scelte diverse da quelle attuali. I russi hanno costruito un impero e si sono mossi sempre per questioni di prestigio, anche a prescindere dagli interessi economici rimettendoci tantissimo. Pensate alle spese che la Russia sosteneva, in epoca sovietica, al tempo per finanziare i partiti comunisti in tutto il mondo. La Russia è talmente ricca di gas che pensare che avrebbe scatenato una guerra per questa fonte, che pure è presente in maniera rilevante in Ucraina, ma se la confrontiamo con la disponibilità del Paese, francamente non mi sembra corrispondente alla sua linea generale nella politica estera.

Ferrari, lei in una dichiarazione a Febbraio diceva che “è probabile che la guerra continui, non abbiamo per ora prospettive sul dopo”. Attualmente è cambiato qualcosa?

Per la Russia lo scenario del dopo è abbastanza bloccato. Quello che è cambiato rispetto a febbraio è che la guerra ha preso un indirizzo più conservativo. È difficile immaginare che militarmente possano accadere sconvolgimenti particolari. L’Ucraina non ha la forza di vincere, la Russia parrebbe neppure. Entrambe puntano sul logoramento dell’altro, ma nessuno dei due Paesi fa grandi passi in avanti. A questo punto la guerra sembrerebbe in corso di esaurimento. Da più parti si segnala la stanchezza sia degli ucraini, degli europei e degli americani, che stanno entrando in campagna elettorale. Per la Russia, c’è già Putin che si è ricandidato per le prossime elezioni. Tutto sembrerebbe indicare una tendenza alla stabilizzazione della crisi, a un progressivo esaurirsi della guerra combattuta, senza però riuscire a elaborare una strategia politica di vera e propria uscita. Non ci sono iniziative diplomatiche ampie, il che fa dire che la guerra attualmente sia in uno stato di paralisi e di non risoluzione. Meglio una guerra che si disseca che una che si sviluppa, però è chiaro che, in assenza di iniziative diplomatiche, di una pace duratura condivisa non si può parlare di prospettiva.

Lei ha anche detto che l’Occidente deve accettare di aver perso la sua autonomia. Lo testimonia anche il rafforzamento dello schieramento dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), probabilmente anche questa realtà si farà sentire in questa conferenza. L’India e la Cina hanno già delle loro prospettive sulla decarbonizzazione. Probabilmente avremo un segnale da questo punto di vista secondo lei?

Io credo di sì, è inutile nascondersi: la politica di decarbonizzazione è desiderata e sospinta dai Paesi occidentali, che hanno superato quella fase di sviluppo economico. Per altri Paesi, soprattutto per l’India o la Cina, mi pare decisamente improbabile che accettino la visione occidentale. Possiamo legare questa loro riluttanza all’importanza dello schieramento dei BRICS. Questo blocco sostanzialmente esprime una reazione, non necessariamente ostile, delle istanze politiche o ambientali che vengono dall’Occidente. Il BRICS è qualcosa di insensato, se analizziamo i punti di contatto reale tra questi Paesi, pensiamo alla rivalità fortissima che esiste tra l’India e la Cina, cosa hanno in comune? Nulla, se non il fatto che mettendosi insieme la loro opposizione si rafforza, non in chiave di un anti-blocco occidentale, ma di una sfera di collaborazione su visioni e tempistiche. Io non conosco nessun Paese che voglia morire di inquinamento, ma non tutti sono allo stesso livello degli Stati occidentali.

Fonte| Mappa dei danni ambientali di Greenpeace & Ecoaction;

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