Erika e Kevin, dalla sordità a un mondo colorato di suoni grazie all’impianto cocleare: “Ci vuole coraggio per tornare a sentire”

Erika Valsecchi ha 41 anni, è nata sorda e per tutta la vita ha utilizzato solo le protesi acustiche. Quando è nato il suo secondo figlio, Kevin, ha deciso però di accettare l’intervento per l’innesto di un impianto cocleare. Insieme, mamma e figlio, hanno affrontato l’intervento e insieme, ora, raccontano su Instagram la loro riscoperta del mondo attraverso i suoni.
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Kevin Ben Alì Zinati 15 Luglio 2022
* ultima modifica il 15/07/2022
In collaborazione con il Dott. Domenico Cuda Direttore dell’Unità Operativa di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza e Past President della Società Italiana di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico-Facciale

A Caprino Bergamasco vivono 3 mila abitanti o poco più. Ci sono un oratorio, due chiese e un collegio convitto del Cinquecento.

In questo angolo chiuso all’ombra delle montagne bergamasche le giornate sono scandite ancora dai rintocchi solenni e puntuali delle campane, e non succedono spesso grandi cose.

L’ultimo evento ingombrante occorso in paese se lo ricordano solo i più anziani perché risale al 1965. A quando cioè il leggendario regista Ermanno Olmi scelse i corridoi del collegio per alcune scene del suo film sulla figura di papa Giovanni XXIII.

Erika all’epoca non c’era e non ha memoria di quando il suo paese si trasformò, per un giorno, in una piccola Hollywood.

Si ricorda molto bene però di quel giorno nella sua cucina, a due passi dal collegio. Il giorno in cui accadde il «suo»» grande evento. Mentre preparava il pranzo, Erika sentì il suono delle campane di Caprino Bergamasco per la prima volta.

Quel giorno fu diverso da tutti gli altri anche perché il suono delle campane del suo paese segnò l’inizio della sua nuova avventura alla riscoperta del mondo. Sua e di suo figlio Kevin.

Un’avventura, sì, perché condita di tutti gli elementi tipici del genere: il divertimento e le emozioni che ti fanno vibrare la pelle, gli amici che fanno scudo contro i nemici, la serenità che si scontra con la paura.

E tanto coraggio, dice Erika: Per una persona sorda sentire è un coraggio, come per un udente non sentire è una cosa spaventosa. Scegliere a 40 anni di mettere l’impianto cocleare è stata dura, forse un po’ di più rispetto a mio figlio Kevin, che è un bambino. Ma l’abbiamo fatto insieme ed è stata la scelta più bella che potessi prendere. Per Kevin, per me, per lamia famiglia”.

Erika

Erika Valsecchi oggi ha 41 anni e da tutta la vita convive con una sordità profonda che le ha impedito di ascoltare il suono del mondo.

Quando se n’era accorta, sua mamma non l’aveva presa molto bene. Forse perché all’epoca c’era pochissima informazione sulla sordità e la sua famiglia non poteva condividere con nessuno “la sventura”, non conoscendo altri nella condizione di Erika. Forse si sentivano esclusi, forse si sentivano diversi.

“Quando mi hanno messo l’apparecchio acustico ho cominciato a parlare e a interagire con le persone. La tecnologia avanzava in fretta e mia mamma cercava sempre di prendermi gli apparecchi più moderni, quindi ho vissuto la sordità sempre in modo sereno. Le difficoltà e le discriminazioni sono arrivate più tardi.

Erika ci ha raccontato tutto questo aprendoci le porte della sua casa di Caprino Bergamasco, dopo averci svelato con orgoglio la storia cinematografica del collegio convitto che campeggia silenzioso al di là della finestra della cucina.

Da più di un anno Erika posta su Instagram le sue giornate da donna e mamma alle prese con la sordità. Ha aperto il suo canale personale “Voce del Verbo Sentire” per sensibilizzare sull’importanza dell’impianto cocleare, il famoso orecchio bionico che ha cambiato radicalmente la sua vita e quella di suo figlio Kevin, anche lui nato sordo.

Con la sua scelta di fare divulgazione, però, vorrebbe anche aiutare le persone a non sentirsi come si era sentita sua mamma, smarrita di fronte alla sordità: come una nave senza bussola e sola in mezzo al mare. “Il mio obiettivo è far capire che la sordità non è assolutamente un problema. Sono gli altri che la fanno diventare tale”.

Lei e gli altri

Quando parla degli “altri”, Erika pensa agli adulti. Ai famosi «grandi» che quando sei piccolo guardi dal basso verso l’alto come si fa con i giganti.

Finché era una bambina, non si è mai posta il problema di essere sorda perché i suoi coetanei non l’hanno mai esclusa dai loro cerchi: “I più piccoli sono anime innocenti, quando vedono una persona con qualcosa di diverso la includono lo stesso: l’importante, per loro, è giocare insieme e divertirsi”.

I problemi sono arrivati dopo, quando i bambini crescono e il mondo si complica. “Ricordo i ragazzi che mi piacevano scappare a gambe levate appena scoprivano che ero sorda. Non scorderò mai nemmeno le cattiverie e i pregiudizi subiti al lavoro. Tanti sono convinti che essere sordi voglia dire essere stupidi”. 

È stato in quel momento che Erika ha conosciuto l’abitudine degli adulti di fare le differenze e a discriminare. È lì che ha scoperto cosa significa sentirsi diversi. E soli.

Poi però, uno di quei ragazzi che prima scappavano non se n’è più andato. Con Marco, l’istruttore della palestra a cui Erika aveva deciso di iscriversi per superare una storia appena finita, era nato fin da subito un legame particolare. Non riuscivano a staccarsi gli occhi di dosso. Succede: si chiama colpo di fulmine.

“La cosa che mi è piaciuta subito di mio marito è stata la sua profonda onestà – ci ha confessato Erika, proprio mentre Marco faceva la sua apparizione dalla porta delle scale – Quando gli ho detto che ero sorda, la prima cosa che mi ha detto è stata: «E allora?».

Oggi Erika e Marco festeggiano 12 anni di matrimonio e insieme hanno avuto prima Noemi, una bambina silenziosa e con un’arguzia fine, e poi Kevin.

Una vita da sordi

Erika è nata sorda, ma quando aveva 25-30 anni il suo udito è paradossalmente peggiorato ancora perché le protesi acustiche che la sua mamma le aveva regalato non l’aiutavano più.

Non erano inadeguate o malfunzionanti. Il suo corpo aveva semplicemente cominciato a fare i capricci, come se non ne avesse più voluto sapere di ascoltare. “I medici mi avevano proposto l’impianto cocleare ma mi sono sempre rifiutata. L’intervento mi faceva paura, forse perché non mi ero mai informata completamente”.

Così Erika aveva rinunciato all’orecchio bionico, adattandosi a un mondo a basso volume e poco alleato di chi soffre di sordità. “Oggi è più facile essere sordi anche se ci sono aspetti che andrebbero migliorati. Se una persona deve prendere un appuntamento per telefono come fa se non sente? Siamo nel 2022 e i servizi di messaggistica non ci sono”.

Le barriere, per la maggior parte delle volte invisibili agli occhi degli altri, sono dappertutto. Pensa a quando vai al cinema con gli amici o il fidanzato e a quando ci provano le persone affette da sordità. “Da tempo esiste un’app per il telefono che proiettati i sottotitoli in contemporanea con il film ma per utilizzarla devi continuare a fare il ping-pong tra lo smartphone e lo schermo ed è davvero faticoso, quasi impossibile”. 

Altre volte i messaggi mancano del tutto, come negli aeroporti o nelle stazioni dei treni dove i ritardi sono spesso solo annunciati dall’altoparlante e non attraverso avvisi sui tabelloni.

E a scuola? “Si sa che per comunicare le persone con sordità devono leggere il labiale, ma serve far capire agli insegnanti e ai docenti che un sordo deve stare seduto in un punto della classe da cui riesce a vedere tutti gli altri e può leggere il labiale, altrimenti è tagliato fuori”.  

Kevin

Quando è nato Kevin, il secondo figlio, Erika ci era rimasta male a scoprire che fosse sordo come lei. Come già sua mamma prima di lei, si è ritrovata senza bussola in mezzo al mare. Anche lei, era rimasta smarrita di fronte alla sordità del figlio.

Fin da subito però Erika si è ovviamente presa cura di Kevin, gli ha insegnato ad utilizzare le protesi acustiche e con quelle entrambi hanno iniziato ad affrontare il mondo.

Quando Kevin aveva 7-8 anni siamo andati in un parco e mi sono accorta che quando i suoi amici lo chiamavano, lui non sentiva ha ricordato Erika, mentre con l’indice della mano sinistra ripercorre i contorni dei tatuaggi che popolano l’avambraccio destro: un fiore, una farfalla, l’autografo di Gianni Morandi – Giocava a pallone e gli urlavano «Kevin!» ma lui non reagiva. Lo abbiamo fatto vedere ed era risultato che anche il suo udito era peggiorato con l’età.

A differenza del suo, però, quello di Kevin regrediva velocemente.

Erika ricorda di aver sentito, in quel momento, come una mano stretta attorno alla gola. Un senso di panico asfissiante. Sapeva cosa avrebbe potuto attendere Kevin ed era determinata a non fargli passare la stessa vita che aveva avuto lei.

Così si è rivolta al dottor Domenico Cuda, direttore dell’Unità Operativa di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza e da qualche mese Past President della Società Italiana di Otorinolaringoiatria e Chirurgia cervico facciale.

Il dottor Cuda parla con gli occhi e ha un tono di voce calmo e rassicurante. Lo stesso con cui, quel giorno di un anno e mezzo fa, ha messo sul tavolo la soluzione per la grave sordità di Kevin. E anche di Erika: l’impianto cocleare.

L’orecchio bionico

Sicuramente ti sarà capitato di vedere qualcuno con un piccolo dispositivo appiccicato alla nuca e collegato a una sorta di auricolare bluetooth posto dietro l’orecchio.

Ecco, quello è l’impianto cocleare. La parte che vedi all’esterno, indossata come un normale apparecchio acustico, è detta «esoprotesi». Contiene la pila, il microfono e i circuiti che elaborano i segnali e li trasmettono a un altro mini dispositivo detto «endoprotesi».

La endoprotesi non l’avrai mai notata perché non si vede, dal momento che è inserita chirurgicamente nella coclea, una delle parti dell’orecchio interno.

Qui permette di stimolare elettricamente le terminazioni del nervo acustico che sopravvivono anche in caso si sordità grave, quando cioè tutte le cellule ciliate della coclea sono morte.

Le due parti sono tenute insieme e accoppiate attraverso la pelle da due magneti che consentono un buon allineamento e la trasmissione delle informazioni della parte esterna a quella interna. Se noti, infatti, nei loro video vedrai Erika e Kevin attaccare e staccare le esoprotesi con una facilità estrema.

In sostanza, come ha spiegato il dottor Cuda, l’impianto cocleare è un vero e proprio «orecchio bionico»: “Questo dispositivo cerca di simulare al massimo il meccanismo di funzionamento dell’orecchio interno normale. Simula, cioè, nella miglior maniera possibile il funzionamento della coclea normale”. 

Quel giorno di un anno e mezzo fa, nello studio del dottor Cuda, Erika era rimasta a lungo titubante. Voleva offrire il meglio a suo figlio Kevin ma aveva paura.

Paura di qualcosa che non conosceva. Paura di un dispositivo di cui sapeva poco o nulla e di un intervento che le sembrava rischioso e troppo invasivo.

Poi però Kevin ha guardato la sua mamma, dritta negli occhi, e le ha fatto la domanda più semplice e insieme più potente del mondo: «Mamma, lo facciamo insieme?». 

Erika non poteva dirgli di no.

Il primo passo

La svolta dell’impianto cocleare sta nel tipo di suono che produce. Un piccolo-enorme dettaglio che ha rivoluzionato la vita di Erika e messo sui binari giusti quella di Kevin.

Ce l’ha raccontato prima: Erika per decenni aveva solo e sempre utilizzato gli apparecchi acustici, che le ridavano sì l’udito restituendole però un suono neutro e quasi “metallico”, privo di colori e sfumature.

Questo perché di fatto gli apparecchi acustici trasmettono a chi li indossa un segnale amplificato: gli impianti cocleari invece inviano correnti elettriche.

"Dobbiamo ricordare che le più comuni e permanenti sordità neurosensoriali sono dovute a una perdita di cellule ciliate della coclea e non delle fibre nervose, che invece sopravvivono – ha spiegato il Direttore dell’Otorinolaringoiatria dell’Ospedale di Piacenza – L’impianto cocleare non ha come obiettivo la cellula ciliata ma la stimolazione di queste terminazioni nervose. In sostanza questo device sostituisce completamente la coclea. È un organo di senso artificiale, l’unico attualmente disponibile”.

L’intervento è una procedura semplice e standardizzata, eseguita in anestesia generale e tutto si conclude in un’ora e mezza al massimo. Il mese successivo all’operazione e alla cicatrizzazione si procede poi con l’attivazione della esoprotesi.

L’attivazione. Il volume su. Il primo passo nel mondo nuovo. “Per me è stato un trauma – ci ha raccontato Erika – Mi chiesero se fossi pronta per l’accensione, feci di sì con la testa. Pochi secondi e mi misi ad urlare. «Spegnetelo, spegnetelo!»”.

Il primo passo è sempre quello più delicato e tornare dopo 40 anni a riascoltare l’ambiente circostante non poteva certo essere una passeggiata. “Dobbiamo immaginare che le persone con sordità profonde quando sono improvvisamente invasi da sensazioni sonore a cui non sono abituati può creare reazioni diverse: qualcuno si commuove, altri si spaventano ha aggiunto il dottor Cuda.

In pratica, è come se la parte uditiva del cervello di Erika fosse rimasta addormentata per 40 anni per essere poi risvegliata tutta in un solo colpo.

Per questo, ha spiegato l’otorino, le settimane successive servono per “regolarizzare e personalizzare la quantità di suono da erogare al singolo paziente per evitare di far sentire poco o troppo”.

Mese dopo mese Erika ha intrapreso un percorso di riabilitazione con un logopedista per addestrare il suo cervello a dare un nome a ciò che sentiva: dai suoni della fattoria quelli degli animali della savana. Poi ha cominciato ad esercitarsi davanti al computer, ascoltando parole e frasi e cercando di ripeterle.

Anche Kevin ha iniziato lo stesso percorso: quando l’abbiamo incontrato, infatti, stava smanettando con il suo tablet affinando l’udito attraverso esercizi con la musica.

Bambina nel corpo di una donna, Erika ha iniziato a curiosare tra i suoni insieme a suo figlio Kevin, entrambi entusiasti di riscoprire il mondo da una prospettiva nuova.

Finché non è arrivato il primo «suono» sentito, riconosciuto e associato a un’immagine nitida e precisa nelle mente.

Rinascere

Ogni anno in Italia vengono innestati circa 1500 impianti cocleari, numeri che a parità di popolazione sono tripli nei paesi del nord Europa, dove si stima comunque un sotto-utilizzo.

Probabilmente, ha ammesso il dottor Cuda, bisognerebbe arrivare almeno a 4 volte questi numeri all’anno per coprire i potenziali utenti.

Ma andrebbe anche sistemato il disequilibrio all’interno delle singole regioni del nostro Paese. “Basti pensare che ci sono zone dove vengono eseguiti 14 impianti cocleari per milione di abitanti ogni anno e altre dove ne vengono fatti 46. C’è una disequità di accesso incredibile, risultato di tanti fattori come lo stato socio-economico ma anche di mancanza informazione e di formazione di tutti i professionisti coinvolti.

Far lievitare questi numeri vorrebbe dire rivoluzionare per davvero la vita di chi oggi, in Italia, soffre di sordità o convive con gravi patologie dell’udito: circa 40mila persone, anche se le cifre potrebbe essere più alte.

Se l’impianto cocleare diventasse una soluzione nota a tutti sarebbe come dare una bussola e permettere a chi affronta la sordità di non ritrovarsi soli in mezzo alla tempesta, come Erika e sua mamma prima di lei.

Erika ce l’ha cristallizzato così: "l’impianto cocleare ridà colore alla vita di chi soffre di sordità. Oggi ho imparato che ci sono le voci maschili e femminili mentre prima con gli apparecchi acustici sentivo le voci tutte uguali. Alla comunione di mio figlio, per esempio, ho riconosciuto la «erre moscia» del prete. Con gli apparecchi acustici vedevo il mondo in bianco e nero, con l’impianto cocleare è tutto a colori. È un altro mondo, sono rinata.

Erika non ha mai smesso di guardarci negli occhi. Nei suoi abbiamo percepito ogni singola vocale delle sue emozioni, specialmente quando ci ha svelato quali sono oggi i suoi suoni preferiti: “La risata dei miei figli, che mi fa sorridere. Poi mi piace molto andare vicino loro mentre dormono e sentire il loro respiro, prima lo sentivo solo attraverso le vibrazioni. E poi mi piacciono le onde del mare: un suono che mi ha lasciato a bocca aperta”.

Senza dimenticare il «suo» suono: le campane di Caprino Bergamasco.

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