India, città di Bhopal. Era la notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 e all’improvviso una nube tossica si innalzò dalla fabbrica di pesticidi stabilita lì nel 1969 come filiale dell’impresa americana Union Carbide.
Gli abitanti della zona si svegliarono tossendo con gli occhi che bruciavano, senza riuscire a respirare. In migliaia persero la vita (il numero cambia a seconda della fonte, ma si stima possa aver raggiunto i 3700 decessi) e tantissimi altri si ammalarono irreparabilmente raggiungendo un bilancio di 20mila morti negli anni successivi in seguito al contatto con la sostanza. L’acqua divenne impossibile da bere e l’aria impossibile da respirare. E lo sarebbero stati per tanti, tanti anni dopo. Ma cos’era successo?
Quella notte dallo stabilimento erano fuoriuscite 42 tonnellate di isocianato di metile (MIC), una sostanza usata per la produzione di pesticidi che la fabbrica aveva iniziato a produrre direttamente in loco, smettendo di importarla, per poi fermarsi anche con la produzione ma mantenendo grosse quantità stoccate nei serbatoi sotterranei. Una sostanza estremamente tossica che colpisce occhi, pelle e vie respiratorie.
La causa della perdita è stata, secondo gli attivisti ma anche stando a diverse testimonianze interne di ex lavoratori, la carenza di procedure di manutenzione degli impianti che dovrebbero esserci state e i tagli alle misure e al personale di sicurezza dopo che l’azienda è andata in perdita. Situazioni che nella sede americana naturalmente non si verificavano. In pratica, la tutela e la sicurezza in una fabbrica di sostanze estremamente tossiche era stata messa completamente in secondo piano, nonostante la filosofia dell’azienda fosse “Safety First”. Durante quella notte del 2 dicembre, un supervisore aveva scoperto una fuga della sostanza alle 23.30, ma aveva rimandato il trattamento del danno. Nel giro di una sola ora la pressione aveva aperto la valvola di sicurezza consentendo a 40 tonnellate di isocianato di metile e altre sostanze tossiche di fuoriuscire e disperdersi nell’ambiente in modo totalmente incontrollato e letale, raggiungendo i 40 km quadrati attorno allo stabilimento e chi vi abitava.
Quella notte le persone iniziarono a svegliarsi con il volto che bruciava, senza respiro, senza vista, senza forze ma soprattutto senza sapere cosa fare e quindi riversandosi alla cieca in strada. Gli stessi medici della zona, nonostante erano totalmente impreparati e non sapevano come gestire la problematica perché non erano stati informati delle manovre necessarie in caso di esposizione alle sostanze tossiche (spostarsi più in alto per sfuggire al gas, molto più pesante dell’aria, o coprirsi il volto con un panno bagnato). Soltanto nel corso delle prime ore del disastro morirono migliaia di persone, ma i decessi proseguirono nel tempo e gli effetti dell’intossicazione da MIC si vedono ancora oggi.
Ancora non si sapeva infatti, ma le conseguenze di quell’incidente si sarebbero protratte per decenni e decenni dopo il suo verificarsi, in primis perché nessuno si mosse mai davvero per risolvere quella drammatica situazione né per tutelare dignitosamente le vittime di quel gravissimo incidente. Alle circa 5.000 vittime riconosciute, il governo indiano ha dato appena 25000 rupie, il corrispondente di circa 2.200 euro. La Union Carbide pagò poche centinaia di milioni di dollari per il disastro, molto meno rispetto alla richiesta iniziale, e successivamente nel 2001 venne acquistata dalla Dow Chemical che ritenne il risarcimento già dato sufficiente per le vittime e la comunità intera. Il CEO della Union Carbide Warren Anderson fu accusato di omicidio e venne effettuata una richiesta di arresto e di estrazione dagli Stati Uniti mai realizzata, si suppone per ragioni economiche riguardante gli interessi degli Stati Uniti nel territorio indiano.
Oggi, oltre 36 anni dopo il disastro, la zona del sito industriale, circa 70 acri, non è ancora stata completamente decontaminata e ogni anno diversi bambini nascono malformati o presentando gravi patologie a causa dell’acqua, della quale è stato certificato da oltre vent’anni che contiene solventi clorurati e altre sostanze dannosissime e dei fanghi tossici che ancora giacciono indisturbati a pochi metri dalle case di alcune persone che, evidentemente, non possono permettersi di andare a vivere altrove. Secondo un’inchiesta realizzata da The Atlantic nel 2018, nel 2012 (troppi anni dopo l’incidente) la Corte suprema indiana ha imposto l’installazione di tubi che portassero nelle case acqua pulita dal fiume Narmada. Ma questi tubi passavano proprio attraverso le fognature contaminate e si contaminavano durante le giornate di pioggia. L’intenzione è quella di trasformare quel sito, una volta messo in sicurezza, in un memoriale per ricordare la tragedia e le sue vittime, un monito per imparare da un errore che è stato, e sarà sempre, irreparabile.