Il trapianto di utero in Italia è realtà, il prof Scollo: “Che soddisfazione contribuire al sogno di una giovane donna”

In sala operatoria, a Catania, c’era il professor Paolo Scollo, che è anche il direttore del protocollo sperimentale attraverso il quale, nei prossimi tre anni, altre donne potranno sperare in una gravidanza. Scollo ci ha raccontato come è nato il progetto e, passo passo, ci ha portato lungo l’iter che ogni paziente deve affrontare per arrivare al delicato intervento, partendo dalla difficile e lunga ricerca di una donatrice.
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Kevin Ben Alì Zinati 22 Settembre 2020
* ultima modifica il 23/09/2020
Intervista al Prof. Paolo Scollo Direttore del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell'Ospedale Cannizzaro di Catania

Il trapianto di utero, in Italia, oggi è realtà. Lo è diventato nel mese di agosto, quando un’equipe chirurgica del Policlinico Catania e del'Ospedale Cannizzaro ha innestato l'organo a una giovane donna di 29 anni, regalandole di fatto la possibilità, da qui a qualche mese, di realizzare il suo sogno e iniziare la prima gravidanza. A guidare il trapianto, in sala operatoria c'era il professor Paolo Scollo, direttore del reparto di Ginecologia e Ostetricia del Cannizzaro di Catania e uno dei due medici a capo del protocollo sperimentale: partendo dal momento in cui il progetto ha cominciato a prendere forma, ci ha raccontato come una paziente arriva al delicato intervento e quali sono i rischi e le difficoltà che ginecologi e chirurghi vascolari possono incontrare nelle 24 ore che dividono il ritrovamento del donatore dalla dimissione della donna.

Professore, prima di arrivare al caso della "vostra" paziente 29enne, dobbiamo ricordare che erano almeno 20 anni che si parlava di trapianto di utero. Che cosa è successo nel mezzo?

Ad inizi 2000 l’intervento era stato tentato in Arabia Saudita e poi anche in Turchia ma era sempre andato male. Così l’idea è stata abbandonata fino al 2014, quando un gruppo svedese guidato dal professor Mats Brannstrom è riuscito a mettere a punto una tecnica chirurgica tale da portare a termine con successo il primo trapianto, da vivente. Questa è stata la svolta. Il gruppo svedese ha sempre avuto il ruolo di capofila e sulla base della loro esperienza si sono aperti altri centri in tutto il mondo, dagli USA all’India fino al Brasile e al Giappone.

E poi è arrivata anche l’Italia, tra l’altro per merito del suo intervento. 

Nel 2015 ho incontrato Mats Brannstromm e le sue parole mi hanno ispirato al punto che in quel momento decisi di portare avanti il programma di trapianto di utero nel nostro paese. Ne parlai con l’allora ministro Lorenzin che avallò il progetto e insieme al Centro Nazionale Trapianti del’ISS stipulammo una convenzione fra due aziende, il policlinico di Catania e l’ospedale Cannizzaro: era giungo del 2018. Da qui al 2019 abbiamo iniziato ad arruolare pazienti.

Come avviene il reclutamento? 

In tre fasi. Prima di tutto, dopo lo screening e la presa in carico della paziente, valutiamo se è idonea a ricevere l’utero, a quel punto confermiamo la diagnosi, facciamo tutti gli accertamenti e completiamo l’iter con l’induzione dell’ovulazione e la crioconservazione degli ovociti. Questa parte può avvenire anche in altri centri d’Italia accreditati, come Firenze, Torino, Pordenone. In questo modo una paziente fuori dalla Sicilia non deve necessariamente trasferirsi dalla propria regione.

E poi si aspetta un donatore. 

Appena disponibile si entra nella seconda fase: quando il centro regionale trapianti, dove sono conservati i dati immunologici e i parametri di compatibilità, dà la conferma veniamo avvisati. A quel punto chiamiamo la prima paziente compatibile e chiediamo la sua disponibilità: alla conferma, parte la macchina organizzativa. Se la paziente è in Sicilia con i propri mezzi si reca al Policlinico per il ricovero, contemporaneamente l’equipe ginecologica e trapiantologica esegue l’espianto nella sede della donatrice.

Concretamente l’intervento in che cosa consiste? 

È un po’ come quando si espianta e impianta un albero, ci sono due modi. Si possono togliere tutte le radici e reimpiantarlo così, con una percentuale di attecchimento più alta rispetto invece al caso in cui tagliassimo l’albero e piantassimo un tronco. In più, per restare nella metafora, ogni pianta ha bisogno di irrigazione, la cosiddetta anastomosi vascolare. In sostanza, dunque, con il mio team espiantiamo l’utero della donatrice con tutte le connessioni legamentose mentre i chirurghi vascolari, guidati dal professor Veroux, eseguono l’isolamento ed espianto dei vasi. Poi torniamo in sala operatoria a Catania dove l’equipe ginecologica impianta l’utero e il professor Veroux si occupa della parte vascolare.


Si tratta di un lavoro giocato sull’organizzazione e sul tempo, quindi. 

Il lavoro dei chirurghi deve essere coordinato alla perfezione, anche perché può capitare di avere il donatore ma che il ricevente sia a 100km di distanza quindi bisogna organizzare trasporti con aerei privati, tutto cronometrato al secondo.

Faccio un passo indietro e mi collego a quanto ha detto prima sulla tecnica sviluppata dal gruppo svedese, messa a punto partendo da donatore vivente. Nel vostro caso, invece, l’espianto è avvenuto da una donatrice che aveva già raggiunto la morte cerebrale. Che differenza c’è?  

Nel mondo l’80-85% dei trapianti viene fatto da vivente, in Svezia il trapianto di utero viene fatto solo da vivente mentre in Italia l’Istituto Superiore di Sanità ha autorizzato solamente l’espianto da pazienti in morte cerebrale. Le due tecniche portano con sé problematiche e vantaggi diversi. Prelevare organi da vivente per esempio consente all’équipe medica di prepararsi, così come al ricevente vengono somministrati farmaci anti-rigetto un mese prima dell’intervento. Da cadavere invece i tempi sono strettissimi perché tutto si svolge in 24 ore. Il rischio del rigetto da vivente sarebbe dunque minore e il donatore potrebbe essere scelto tra i parenti stretti quindi la compatibilità sarebbe massima. Ma la tecnica da cadavere è altrettanto sicura, abbiamo già visto i primi bambini nati da mamme sottoposte a questo tipo di trapianto quindi possiamo dire che le due metodiche si equivalgono.

Tornando all’intervento, una volta che la paziente esce dalla sala operatoria, arriva il momento più delicato, quello in cui deve convivere con il nuovo organo per poter arrivare alla gravidanza. 

È la terza fase. Quando viene dimessa la sottoponiamo a biopsie del collo dell’utero ogni quindici giorni per valutare l’eventuale rigetto dell’organo e la vascolarizzazione. Continuiamo così per i primi sei mesi. Arrivati al sesto-ottavo mese, se tutto va bene, procediamo con la fecondazione assistita, che può effettuare da noi o dove ha crioconservato gli ovociti.

Una volta poi che la donna è riuscita ad avere un figlio, perché l’organo viene tolto nuovamente? 

Qui serve fare chiarezza perché in molti casi è passato un messaggio sbagliato. Finita l’attività riproduttiva è previsto per la coppia o la paziente il forte consiglio di togliere l’utero per evitare di dover assumere farmaci anti-rigetto, aggravati anche da diversi effetti collaterali. Ma non è un obbligo: se la donna volesse avere un’altra gravidanza ne avrebbe tutto il diritto.

Professor Scollo, oggi la vostra paziente è stata dimessa e sappiamo che sta bene. Dev’essere una grande soddisfazione. 

È a casa, ogni giorno ancora ci invia dei messaggi perché la sua voglia di essere mamma è più grande di quanto potessimo immaginare. Quando l’abbiamo chiamata, nel cuore della notte, avvisandola che c’era una potenziale donatrice, non abbiamo nemmeno dovuto chiederle di mettersi alla guida per venire da noi: aveva già la borsa in macchina da giorni.

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