Il riscaldamento globale non è un problema comparso dal nulla. Ha una storia lunga ormai più di un secolo e mezzo, che risale all'inizio dell'epoca industriale, a circa metà dell'Ottocento. É in quel momento, devi sapere, che le emissioni prodotte dall'attività umana hanno iniziato a aumentare sensibilmente. Modificando nel tempo sempre di più la concentrazione di gas serra nell'atmosfera, responsabile della crescita della temperatura. Ma queste emissioni non riguardavano tutto il mondo. Erano invece quasi del tutto ad opera delle industrie di Paesi dell'Europa Occidentale prima, e degli Stati Uniti poi. Oppure, erano legate agli investimenti in tutto il mondo da parte dei grandi gruppi finanziari, sempre occidentali.
Da questa rapida descrizione, sarai d'accordo, deriva il fatto che non tutti i Paesi hanno le stesse responsabilità per il global warming. Proprio per questo uno dei principi più importanti della giustizia climatica è quello delle "responsabilità comuni, ma differenziate". Di conseguenza, serve che i Paesi che hanno inquinato maggiormente sostengano le economie di quelli che lo hanno fatto di meno, o che al momento emettono molto per raggiungere lo stesso livello di benessere economico raggiunto nel tempo dai Paesi Occidentali.
La transizione ecologica dei Paesi in via di sviluppo, e dunque la loro rinuncia a carbone, gas e petrolio, è fondamentale se vogliamo assicurare un futuro al nostro pianeta. Ma allo stesso tempo, sarai d'accordo, i Paesi in via di sviluppo hanno diritto a fare accrescere il benessere della loro popolazione. Per bilanciare queste due esigenze, serve il sostegno dei Paesi più ricchi a quelli meno, per garantire lo sviluppo di un'economia globale sostenibile a livello ambientale. Investendo sulle rinnovabili, riducendo le emissioni e adattandosi alle sfide del global warming. E perché questo sostegno dia risultati, uno dei ruoli fondamentali lo deve giocare la finanza climatica.
"La finanza climatica è un settore che si evolve rapidamente", ci spiega Francesco Lamperti, ricercatore in politica economica alla scuola superiore Sant'Anna di Pisa e scientist all'European Institute on the economics and environment di Milano. Sono due, devi sapere, i principali filoni di ricerca di questa disciplina: "Uno è quello che tratta il problema di come gli investimenti in mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici possano essere finanziati, e da chi. Questo è il segmento più sviluppato e più storico, che si lega anche al famoso fondo da cento miliardi di euro approvato a Copenaghen nel 2009".
L'altro filone, di origine più recente, è invece "quello che punta a capire come il sistema finanziario pubblico e privato possa finanziare la transizione ecologica, rendendosi conto però di come quest'ultima possa anche avere un impatto destabilizzante sul sistema finanziario, e a cascata sull'economia reale".
Entrambi gli aspetti sono molto importanti. In sintesi, si prova a capire quali investimenti debbano essere fatti per evitare rischi, all'ambiente come al sistema economico in generale. "Io trovo davvero importante focalizzarsi sugli investimenti in adattamento, dato che ci sono aree del mondo in cui l'impatto del global warming si sta già vedendo. Bisogna agire subito", spiega Lamperti. In molti Paesi infatti non c'è necessità di ridurre le emissioni, che sono nulle o quasi rispetto a quelle di altri. Serve invece investire per permettere a quelle popolazioni e a quelle economie di adattarsi alle conseguenze di 150 anni di emissioni climalteranti.
In questo senso, le attenzioni sono tutte sulla prossima Cop27, che si terrà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dal 7 al 18 novembre 2022. Al centro ci saranno proprio i cento miliardi all'anno promessi dai Paesi più ricchi già dall'edizione danese della Cop nel 2009, e mai effettivamente stanziati. È possibile che l'obiettivo questa volta venga centrato? "Difficile fare previsioni, anche di fronte al risultato deprimente dell'ultima Cop. La speranza è che si riesca a garantire almeno quanto promesso, i cento miliardi annui", spiega Lamperti. Per cui "bisognerebbe arrivare prima possibile a questo obiettivo, cercando però anche di cambiare il modo in cui questi fondi vengono erogati".
Si tratta infatti in larga parte di prestiti, per quanto concessi con un tasso inferiore a quello di mercato, e non di somme a fondo perduto: con tutto ciò che ne consegue. Se i soldi vanno restituiti, il finanziamento vero è dunque solo il risparmio garantito a questi Paesi al momento di finanziarsi sui mercati. "C'è stato un dibattito sulle stime di questi fondi, non convergenti. Oxfam ha rivisto i conti dell'Ocse, calcolando l'importanza dei finanziamenti solo in base al risparmio effettivo, dovuto al fatto che i prestiti erano stati concessi a tassi inferiori".
Le cifre realmente stanziate diventano così decisamente minori, spiega Lamperti: "Vanno quasi a dimezzarsi. Si dovrebbe dunque puntare sui finanziamenti a fondo perduto, e non su investimenti che creano nuovo debito". Questo punto è importante, spiega Lamperti: "Strumenti come i prestiti agevolati a volte non funzionano bene con investimenti in adattamento. Questo perché non garantiscono ritorni immediati, non generano ricavi che permettono a loro volta di ripagare il debito". Insomma, investire sull'adattamento ai cambiamenti climatici non può essere considerato un tema meramente economico, un'attività che deve generare profitti. Ma come un qualcosa di necessario per impattare la crisi climatica.
Ma al di là dei lavori della Cop egiziana, secondo Lamperti c'è bisogno di un maggiore coordinamento di tutto il sistema finanziario, dalle banche centrali ai fondi d'investimento. Non solo per garantire i finanziamenti necessari alla transizione ecologica, ma anche per mettere in campo politiche che non rischino di innescare crisi economiche. "L'esempio principale riguarda i cosiddetti ‘stranded assets‘. Le grandi compagnie, soprattutto nel settore estrattivo, hanno a bilancio attività dall'importante valore futuro, come riserve di carbone, gas e petrolio non ancora sfruttate", sottolinea Lamperti.
"Se si decide però che queste non potranno più essere estratte, se si andasse dunque in direzione di un contenimento serio delle emissioni, queste compagnie perderebbero moltissimo valore. Anche destabilizzando i sistemi finanziari, dato che sono quotate in Borsa, sui mercati internazionali, per miliardi e miliardi di dollari. Con il rischio di crisi nell'economia reale". Insomma, serve capire come spingere la finanza in direzione dell'economia sostenibile, ma anche evitare di mettere a rischio il sistema in generale.
Questo perché il crollo di queste compagnie significa potenziali perdite economiche enormi per chi ci abbia investito, e tra questi potresti esserci anche tu, tramite la tua banca. Serve dunque una spinta forte affinché gli investimenti nella ‘finanza sporca' siano via via orientati a quella sostenibile, prevedendo politiche che forzino la riconversione ecologica delle aziende più inquinanti.
Altro elemento che contraddistingue la finanza climatica è poi il mercato delle emissioni. Questo, in termini semplici, prevede che la CO2 emessa vada progressivamente pagata, e che il prezzo da pagare continui a salire nel tempo. "Il fatto che ci sia un tentativo di dare un prezzo alla co2 è un segnale importante di lungo periodo, porta a riconoscere che emettere è negativo", ragiona Lamperti. "È dunque giusto che venga compensato, ed è giusto che il prezzo della compensazione tenda a crescere".
L'economista però non crede che questo sia il modo migliore di ridurre in maniera netta le emissioni. Il motivo sta nella forza economica di alcune imprese. "Ce ne sono molte che hanno la capacità di adattare il proprio business a costi maggiori, pagando semplicemente di più le loro emissioni, senza dover riconvertire le proprie politiche. Hanno le tasche talmente profonde da poter tranquillamente procedere nelle loro attività".
Esistono poi altri nodi, legati a imprevisti. Lo spostamento progressivo della finanza verso il sostegno a attività senza impatto sull'ambiente può essere interrotto da shock, ad esempio l'attuale conflitto tra Russia e Ucraina. Il prezzo del gas è letteralmente volato alle stelle, mentre l'energia fornita dalle rinnovabili è ancora inferiore rispetto al fabbisogno. Una ipotetica mancanza futura di metano russo potrebbe convincere banche e fondi a investire sempre di più in nuovi giacimenti, mettendo dunque a rischio l'obiettivo della riduzione delle emissioni. Lamperti su questo scenario è però positivo: "Non credo che la guerra tra Russia e Ucraina abbia interrotto lo spostamento della finanza verso il finanziamento di investimenti ‘green'. La trasformazione andrà avanti, essersi resi conto che c'è una dipendenza cruciale da alcuni Paesi crea la spinta di lungo periodo all'indipendenza energetica, che può venire solo alle rinnovabili".
Il problema vero per l'economista resta invece quello del greenwashing, ovvero della differenza tra quanto comunicato pubblicamente dalle aziende o dalle banche, e il loro comportamento reale. "Tante compagnie hanno come strategia quella di mostrare più o meno piccoli investimenti in rinnovabili, in mobilità sostenibile. Ma se si guarda ai piani industriali o alle attività a bilancio, il grosso dei ricavi viene da investimenti in combustibili fossili. Qui bisogna capire come incentivare le grandi aziende private a spostarsi verso politiche sostenibili, senza che piccoli investimenti possano mascherare i veri loro business", suggerisce Lamperti.
Tra le soluzioni proposte, anche politiche finanziarie che taglino ogni sostegno alle fonti più inquinanti. "Oggi i combustibili fossili sono largamente sovvenzionati, vanno eliminati i sussidi pubblici alla finanza sporca. Da un lato servono incentivi monetari, come fare crescere gradualmente il prezzo della co2 emessa; dall'altro servono però regolazioni più stringenti, degli orizzonti temporali per effettuare ad esempio la chiusura definitiva delle centrali a carbone. La costrizione legale è più potente rispetto a quella economica, che non sempre è adeguata per la gestione delle attività di questo tipo".
Insomma, la finanza climatica può e deve giocare un ruolo importante nella transizione ecologica. Per farlo, però deve crescere intensamente nei prossimi anni. "Se guardiamo alla maggior parte dei modelli futuri sulle emissioni e sugli investimenti che servono per contenerli, si vede che lo sforzo della finanza per il clima deve aumentare. Deve raddoppiare da qui a dieci anni. Serve coinvolgere sia la finanza pubblica che quella privata, ma è la pubblica che si può caricare sulle spalle la responsabilità di sviluppare tecnologie promettenti ma rischiose. Pensiamo a quanto successo ad esempio con gli impianti eolici offshore", ragiona Lamperti.
Serve dunque, secondo l'economista, un ruolo iniziale del pubblico, e poi garantire un coinvolgimento del privato nella seconda fase, quando i rischi principali si sono ridotti e si può investire con meno rischi su certe tecnologie. "Il privato serve a diffondere le tecnologie più che a svilupparle", spiega Lamperti, per cui "il ruolo più importante, cruciale, è quello del pubblico. Teniamo conto che il riscaldamento globale farà sentire molti dei suoi effetti anche nei Paesi più sviluppati, cosa che potrebbe portare i governi di questi Paesi a investire molto nelle tecnologie per l'adattamento. Mentre per quanto riguarda le politiche di mitigazione, come lo sviluppo delle rinnovabili, il ruolo centrale sarà del privato affinché ci sia una diffusione adeguata alla sfida".
In conclusione, realizzare la transizione ecologica a livello globale sarà impossibile senza che il mondo della finanza (pubblica e privata) si attivi con decisione in tal senso. Il ruolo dei vertici internazionali, come la Cop27, dev'essere anche quello di spingere in questa direzione.