Su una cosa, almeno a parole, sembrano essere tutti d'accordo. In mancanza di un'azione globale e coordinata per ridurre le emissioni di gas serra, l'emergenza climatica è destinata ad aggravarsi. Lo affermano i rapporti Ipcc rilasciati negli scorsi mesi, che hanno sollevato ulteriore attenzione sul problema. Ribadendo l'esigenza di tagliare le emissioni almeno del 43% entro il 2030, se vogliamo avere ancora speranze di poter rispettare gli Accordi di Parigi. Ma dello stato di crisi attuale ce ne si può accorgere semplicemente aprendo un giornale, e scorrendo le notizie che ogni giorno mostrano gli effetti del global warming sui territori e sulle popolazioni di tutto il mondo.
Questa situazione genera però, purtroppo, reazioni opposte. A volte, anzi molto spesso, incapaci di guardare oltre le esigenze di breve periodo. Se infatti da un lato il segretario generale Onu Antonio Guterres definisce folle investire nuovamente in combustibili fossili, dall'altro molti Stati puntano su un concetto annacquato di decarbonizzazione. Ovvero, in favore di investimenti non sulle energie rinnovabili, ma su tecnologie non sicure come il nucleare o su fonti fossili meno inquinanti rispetto al carbone, come il gas.
Da un lato dunque appelli imperativi, dall'altro spinte a essere realisti. Quello che accade anche in occasione di eventi come le Cop, le Conferenze delle Parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Dove spesso si trovano compromessi che – purtroppo – vanno quasi sempre nella direzione di accontentare i pragmatici. È del resto quanto avvenuto a Glasgow nell'ultima edizione della Conferenza. Uno scenario che dobbiamo aspettarci anche in vista del prossimo meeting, in programma a Sharm El-Sheikh dal 7 al 22 novembre 2022.
"Si ha la sensazione che non si parta proprio col piede giusto, soprattutto a causa delle crisi globali che stanno concatenandosi senza soluzione di continuità", ci aveva detto qualche tempo fa Cristiana Fiamingo, docente di Storia e Istituzioni dell'Africa all'Università Statale di Milano.
Del resto, come analizzare il voto Ue sulla Tassonomia europea degli investimenti sostenibili in maniera lucida, senza dire che è un brutto segnale per il futuro? Se la Cop26 aveva perlomeno evocato una spinta, poi sconfitta, a eliminare completamente l'utilizzo del carbone e a ridurre fortemente il consumo di energia da prodotta da fossili, lo scenario in vista dell'appuntamento di Sharm El-Sheikh è infatti decisamente cambiato.
A pesare è soprattutto la guerra in Ucraina, che ha portato l'Unione Europea, una delle principali forze in campo nel chiedere una neutralità climatica globale, a fare di fatto marcia indietro. Firmando nuovi accordi per importare gas e svincolarsi da Mosca, redigendo nuovi piani per fare fronte a crisi di approvvigionamento, senza però intervenire in maniera decisa allo stesso modo sulle rinnovabili. Diversi Paesi hanno riaperto le attività delle loro centrali a carbone o programmano di farlo, altri stanno investendo ingenti risorse per costruire infrastrutture legate al gas naturale, come rigassificatori o gasdotti. In questo modo, il ritardo nella transizione alle rinnovabili rischia di acuirsi ulteriormente. Forse troppo.
E il resto del mondo non sembra poi comportarsi meglio. Basti prendere in considerazione il comportamento delle due principali potenze globali. La nuova domanda in Europa porterà gli Stati Uniti ad aumentare le esportazioni di gas estratto tramite la tecnica del fracking, una delle più problematiche per il pianeta.
Paradigmatico delle ambiguità è poi il ruolo della Cina, responsabile del 26% delle emissioni globali di gas serra. Pechino da un lato è uno dei maggiori consumatori di carbone al mondo, dall'altro lato però è anche il Paese che maggiormente sta investendo nelle energie rinnovabili, quantomeno in termini di potenza installata.
Ma senza una riduzione importante nel consumo di fonti fossili ci sarà poco da sorridere lo stesso. La crescita delle emissioni totali, dettata dal contemporaneo boom demografico planetario, rischia infatti di essere troppo potente per assicurare un futuro all'umanità. E le tragedie che in tutto il mondo avvengono, dalla siccità prolungata che crea desertificazione, ai devastanti incendi dovuti alle alte temperature, fino allo scioglimento di ghiacciai come avvenuto in occasione della tragedia della Marmolada, mostrano come sul contenimento dei cambiamenti climatici siamo ormai arrivati al punto di non ritorno.
Per arginare la rotta serve dunque un impegno che non si vede oggi, ma anche nel prossimo futuro. In particolare, vista anche la possibile crisi economica in arrivo, pare difficile immaginare passi avanti sul fronte della finanza climatica. Strumento fondamentale per agire a livello globale sull'adattamento e la mitigazione del global warming, ma anche per risolvere le controversie storiche tra Paesi su chi debba essere considerato responsabile della crisi climatica, e debba dunque adoperarsi per invertire la rotta.
Centrale su questo tema è il caso dell'Africa, che senza esserne responsabile, se non in ruolo davvero marginale, sta iniziando a soffrire in maniera durissima le conseguenze dei cambiamenti del clima. Le spese del continente africano già oggi impegnano grandi quote del Pil dei singoli Paesi, in futuro senza aiuto da parte dei Paesi più ricchi e sviluppati, i danni potrebbero diventare inaffrontabili.
La speranza di molti è che si trovi almeno l'accordo sul famoso fondo da 100 miliardi annui in sostegno alle politiche di transizione ecologica delle nazioni in via di sviluppo. Fondi su cui si trovò l'intesa tra le parti addirittura nel 2009, in occasione della Cop15 di Copenhagen, ma poi mai erogati. Molto spesso poi, i finanziamenti stanziati per le politiche climatiche non sono stati a fondo perduto, ma in forma di prestiti. Che a loro volta rischiano di innescare l'indebitamento dei Paesi che li ricevono.
E come spiegato da Francesco Lamperti, ricercatore in Politica Economica alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, è necessario anche trovare il modo di fare pagare per davvero alle grandi aziende emettitrici il costo delle loro azioni: "Molte hanno la capacità di adattare il proprio business a costi maggiori, pagando semplicemente di più le loro emissioni, senza dover riconvertire le proprie politiche. Hanno le tasche talmente profonde da poter tranquillamente procedere nelle loro attività".
E se da qui ai prossimi mesi, come appare probabile, la guerra tra Russia e Ucraina proseguirà, il rischio è quello di un tutti contro tutti per accaparrarsi risorse energetiche, spesso anche a causa di considerazioni politiche. Difficile, giusto per fare un esempio, che la Cina – alleata ombra della Russia nel conflitto alle porte dell'Europa – decida di porre obiettivi vincolanti alle emissioni. Limiti che indebolirebbero sia la sua crescita economica che la tenuta economica di Mosca, da cui Pechino da qualche mese importa molto del gas in passato destinato alla Ue.
Insomma, senza una reale collaborazione è difficile pensare che l'evento di Sharm El-Sheikh possa portare a passi avanti significativi. Come spiegato anche da Piero Lionello, docente di Oceanografia all'Università del Salento e autore di parte dei rapporti dell'Ipcc, "per collaborazione si intende trovare una soluzione reale ai problemi, che non può basarsi su risorse o strategie regionali, ma sulla condivisione di risorse, tecnologie e saperi a livello globale. Del resto, l'anidride carbonica non rispetta i confini nazionali".