L’incognita dietro l’Alzheimer: si previene già dall’infanzia, ma resta ignota la vera causa

In occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer, il dottor Antonio Guiaita, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci fa un un punto su cosa sappiamo della malattia che causa circa il 60% dei casi di demenza senile. Mentre è infatti ormai certa la funzione protettiva della “riserva cognitiva”, resta sconosciuta la causa reale della malattia: “Dobbiamo continuare a lavorare sul doppio fronte della prevenzione e della ricerca.
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Maria Teresa Gasbarrone 21 Settembre 2023
* ultima modifica il 21/09/2023
Intervista a Prof. Antonio Guaita Geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso (Milano)

Dimenticare le cose che fino a qualche tempo prima erano scontate, fino a non riuscire più nemmeno a riconoscere i propri familiari. In chi soffre di Alzheimer, nelle forme più gravi, succede proprio questo: questa malattia neurodegenerativa svuota progressivamente il cervello di tutto ciò che si è immagazzinato in vita, privando la persona della sua autonomia, anche nelle azioni quotidiane più semplici.

Questa condizione è anche comunemente detta "demenza di Alzheimer" ed è la forma più comune di demenza senile, in quanto responsabile di circa il 50%-60% di casi. La malattia è ancora senza cura, sebbene siano stati individuati dei farmaci capaci di rallentarne l'avanzamento e l'entità dei sintomi.

A volte, tra i non addetti ai lavori, si tende a pensare che questa condizione sia una conseguenza dell'invecchiamento, ma demenza e anzianità non sono sinonimi. Per questo la ricerca continua a lavorare per individuare la vera causa della malattia, ancora ignota, e a incentivare la prevenzione.

Una recente ricerca della Lancet Commission, ripresa da Fondazione Alzheimer Italia, ha infatti stimato che fino al 40% dei casi di demenza previsti a livello globale nel 2050 potrebbero essere ritardati o addirittura evitati, intervenendo sui principali fattori di rischio.

In Italia – dove le persone con demenza oggi sono 1.480.000 – significherebbe fermare o rallentare l’insorgere di questa condizione in più di 900.000 persone, delle oltre 2.300.000 che si stima vivranno con la demenza entro la stessa data.

In occasione della Giornata mondiale dell'Alzheimer, Ohga ha intervistato il professore Antonio Guaita, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, Milano, per fare un punto sulla ricerca e sul ruolo della prevenzione.

Il ruolo della ricerca: a che punto siamo?

La prima battaglia decisiva contro l'Alzheimer è quella che si combatte sul campo della ricerca.

Difatti oggi questa malattia è ancora senza cura: non esiste terapia capace di bloccarla e i farmaci disponibili riescono solo a ridurre l'impatto dei sintomi e a ritardare, almeno in parte, la perdita delle funzioni cognitive.

La sfida resta quindi scoprire quali sono i reali meccanismi alla base dell’insorgenza della malattia, così da trovare una terapia efficace nel bloccarla, se non addirittura anticiparne l’insorgenza e prevenirla.

"Sono stati – spiega Guaita – condotti diversi studi su farmaci biologici, a base di anticorpi monoclonali, che sembravano avere tutte le carte in regola per bloccare lo sviluppo della malattia, ma che alla fine si sono rilevati inefficaci".

Per diverso tempo, infatti, parte della comunità scientifica ha ipotizzato che la causa dell'Alzheimer fosse l'accumulo nel cervello di due proteine, la beta-amilioide e la proteina Tau. "Tuttavia, questi farmaci – chiarisce il ricercatore – hanno dimostrato di riuscire a “pulire” il cervello da queste due proteine, eppure non si sono dimostrati efficaci nel fermare il meccanismo alla base della malattia. Questo prova che l’accumulo delle due proteine è più verosimilmente la conseguenza e non la causa della malattia, che quindi resta sconosciuta".

Sono stati infatti osservati anche casi di persone che, pur presentando accumulo di queste due proteine nel cervello, non hanno sviluppato la malattia. Un'evidenza che induce gli scienziati a "ritenere – prosegue Guaita – che ci siano dei fattori di contesto che rendono suscettibili alla neurodegenerazione i neuroni del cervello in presenza di beta-amilioide, ma pensiamo che qualora questi fattori di concausa non è detto che la malattia si manifesti".

A conclusione, Guaita cita un dato piuttosto forte, stimato dalla Fondazione Golgi Cenci analizzando la propria "banca di cervelli": circa il 30% delle persone che in vita hanno una deposizione di beta-amiloide tale da pensare che si trattasse di Alzheimer, è invece deceduto cognitivamente intatto. "Ecco perché continuiamo a studiare il contesto, quindi l’infiammazione e le risposte immunitarie del cervello. Non conosciamo ancora la causa scatenante della malattia".

Perché i casi di demenza aumenteranno?

"La previsione dell’aumento di casi di demenza nei prossimi anni – spiega Guaita – è strettamente legata all’invecchiamento della popolazione, soprattutto nei paesi emergenti. Se infatti si confronta la linea dell’aumento dei casi di demenza con l’andamento dell’invecchiamento, si osserva che questi sono perfettamente coincidenti, a riprova del fatto che l’aumento degli ultra 75enni è la causa quasi esclusiva di questa previsione".

"Anche noi nel nostro piccolo, abbiamo fatto uno studio sui nostri dati e abbiamo previsto una riduzione dei possibili casi di demenza entro il 2050 pari al 39%, quindi un dato molto vicino e concorde rispetto a quanto stimato da Lancet", prosegue Guaita.

La ricerca pubblicata da Lancet ha però evidenziato 12 principali fattori di rischio, comprovati per la demenza. Lavorare su questi potrebbe ridurre in modo notevole il numero di casi:

  • Inattività fisica;
  • Fumo;
  • Eccessivo consumo di alcol;
  • Lesioni alla testa;
  • Contatti sociali poco frequenti;
  • Obesità;
  • Ipertensione;
  • Diabete;
  • Depressione;
  • Disturbi dell’udito;
  • Scarsi livelli di istruzione;
  • Esposizione all’inquinamento atmosferico.

"Si tratta di riduzione della percentuale di rischio, non di una certezza. Ovvero, non significa che eliminando questi fattori di rischio abbiamo la certezza che una data persona non si ammali. Tuttavia, lavorando su questi fattori possiamo ridurre il rischio in una fascia non trascurabile della popolazione", spiega l'esperto.

Prevenire sì, ma in base all'età

A proposito del ruolo della prevenzione, è interessante notare che per l'Alzheimer i fattori di rischio mutano in base all'età anagrafica dell'individuo.

Se per l'età adulta i fattori di rischio per l’insorgenza dell’Alzheimer sono molto simili a quelli specifici delle malattie cardiovascolari, come l’obesità, il diabete e l’ipertensione. In età avanzata, invece, è fondamentale mantenersi mentalmente attivi e avere contatti e scambi sociali.

Invece, in infanzia si è visto essere decisivo frequentare la scuola, almeno per un minimo di anni. "In realtà – chiarisce Guaita – le ragioni sono ancora un mistero. Resta il fatto che a una maggiore scolarità è associata un'aspettativa di vita maggiore, oltre che ad altri effetti positivi come una minor incidenza di tumori e anche un minor rischio di sviluppare forme di demenza". 

Scuola ed "effetto tetto" contro l'Alzheimer

È stato osservato una sorta di “effetto tetto”, ovvero sembra che faccia la differenza ricevere un'educazione scolastica di base abbastanza alta, almeno non inferiore di 5-8 anni, mentre superata questa soglia la funzione protettiva della scolarità rispetto allo sviluppo di certe malattie è meno forte.

In sostanza, gli effetti in termini di prevenzioni rispetto a certe malattie non cambiano tra chi si è fermato al diploma e chi si è laureato, ma cambiano in modo evidente tra chi ha concluso le scuole elementari e chi si è fermato prima.

"Questo dato – spiega l'esperto – potrebbe anche in parte spiegare l’ampia diffusione dell’Alzheimer nella popolazione anziana dei Paesi meno sviluppati, dove gli ottantenni di oggi con bassa scolarizzazione sono ancora molti, mentre in Italia e in genere nei Paesi sviluppati tendono ormai a essere sempre meno". 

Che cos'è la riserva cognitiva

In sostanza, il livello di studio in giovane età, e quanto usiamo il cervello anche negli anni successivi ci potrebbe aiutare a prevenire la demenza. "Se pensiamo a quest'ultima come – spiega il ricercatore – a una malattia che progressivamente svuota il cervello, è chiaro che più cose ci sono all’interno maggiore sarà il tempo necessario a compiere questo processo e quindi più tardi arriverà il momento di insorgenza della demenza, tanto che in alcuni casi la malattia potrebbe addirittura non avere abbastanza tempo per manifestarsi".

Questo patrimonio di funzioni cognitive è anche detto "riserva cognitiva". Con questo termine ci si riferisce alla capacità di fronteggiare quei cambiamenti che possono portare all’insorgere di patologie neurologiche, come appunto la malattia di Alzheimer.

È infatti ormai dimostrato che di fronte all’invecchiamento, gli individui con una maggiore capacità di riserva avranno un minor rischio di demenza rispetto a quelli con una riserva più contenuta.

Fonte | Federazione Alzheimer Italia

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