Non volevamo fermarci, nemmeno quando le persone iniziavano a morire

Mentre ci lasciamo alle spalle il primo inverno senza mascherine, si celebra la terza Giornata in ricordo delle vittime del Covid. In realtà, usciamo un po’ tutti feriti dalla pandemia al punto che oggi, semplicemente, non vogliamo più parlarne. Eppure, questo evento che ci ha cambiato profondamente può darci la forza per chiedere alla politica quello che davvero vogliamo per la nostra vita. E anche per il Pianeta.
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Giulia Dallagiovanna 18 Marzo 2023

Sei milioni. Anzi, per la precisione 6.881.955. Due volte e mezzo Roma. 18 volte l'Islanda. Poco più della metà del Belgio. Chi sono? Tutte le persone che il Covid ha ucciso a partire dal 1 febbraio 2020, cioè da quando la Johns Hopkins University ha iniziato a tenere il conto. La sua mappa interattiva, la prima in assoluto, è stata chiusa il 10 marzo scorso. Esattamente tre anni dopo che l'Organizzazione mondiale della sanità aveva dichiarato ufficialmente lo stato di pandemia.

La verità? Oggi non ne vogliamo più parlare. Vogliamo dimenticare. Dimenticare i lunghi infiniti lockdown, il bollettino dei contagi, gli ospedali al limite e pure il pane fatto in casa. Perché quell'esperienza è stata un trauma. Giorni tutti uguali, il senso di impotenza, l'isolamento e la solitudine, la paura. Il burnout.

È stata un'esperienza così profondamente sconvolgente, che in tanti non ci hanno creduto. "La gente è sempre morta". "Sono tutti impazziti". "Dai, è poco più di un raffreddore". "Si muore di più per l'influenza". Fino ad arrivare alle varie teorie del complotto secondo cui era stato tutto montato ad arte per convincerci a iniettarci un vaccino che alla fine ci avrebbe uccisi per davvero. Ricordo ancora i commenti, spesso aggressivi e violenti, sulle pagine social di Ohga.

Allontanare questi ricordi è una forma di difesa, ma c'è chi non lo potrà fare. Mai. E sono le famiglie di quei 6 milioni di persone, che probabilmente sono molte di più. Sì, perché durante i primi mesi di pandemia, quando dalla Cina non arrivavano dati completi e i tamponi macavano in tutto il mondo, molti contagi e decessi non sono stati conteggiati.

Ma le vittime del Covid sono anche altre. Sono i ragazzi che hanno trascorso tanti mesi chiusi in casa, sono gli anziani rimasti soli e isolati, sono i pazienti con malattie croniche o oncologiche passati in secondo piano rispetto all'emergenza. E poi siamo anche noi, che magari oggi ci ritroviamo a fare i conti con disturbi d'ansia, sintomi depressivi e forse con una profonda insoddisfazione che brucia in qualche angolino.

Perché a un certo punto il dubbio di aver sbagliato qualcosa, di esserci tutti un po' illusi, è diventata una certezza. Abbiamo basato i nostri progetti per il futuro su un sistema economico pensato per tendere sempre alla crescita. Dovevamo accettare di lavorare tante ore, pur senza essere adeguatamente pagati, perché poi avremmo raggiunto una posizione ambita. Dovevamo accettare qualche taglio alla sanità e alla ricerca, perché in quel settore venivano sprecati troppi soldi e il ritorno economico non era immediato. Dovevamo accettare di sfruttare ancora un po' le risorse limitate del Pianeta, scendere a compromessi con il cambiamento climatico, o si rischiava di limitare il benessere. L'essere umano poteva tutto, era artefice del suo destino, a patto che si impegnasse senza rallentare mai.

È bastato un microorganismo invisibile per far inceppare questo gigantesco ingranaggio di cristallo. Per svuotare le città, bloccare le imprese. Un ingranaggio che non volevamo fermare, nemmeno quando le persone iniziavano a morire. Il fenomeno della Great Resignation, che ora sta diventando anche Climate Resignation, non è stato un caso. E non è un caso nemmeno che oggi si cerchino impieghi che garantiscano un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, iniziando timidamente a privilegiare la seconda.

Sono passati tre anni da quando tutto è iniziato. Abbiamo appena superato il primo inverno senza mascherine, possiamo ragionare a mente un po' più fredda. La domanda è: cosa chiediamo alle istituzioni? Siamo disposti ad assistere ancora a quell'incredibile perdita di tempo che è il rimpallo delle responsabilità o pretendiamo soluzioni concrete? Ci sta ancora bene sacrificare la nostra vita nel nome dell'aumento dei guadagni e dello scatto di carriera?

Arriverà un'altra pandemia, è probabile. Probabile come d'altronde era questa: iniziamo ad aggiornare periodicamente i piani pandemici e a metterli in atto.

E intanto guardiamo all'altra crisi già in corso. Più grande e più lenta rispetto all'emergenza sanitaria: la crisi climatica. Provoca morti, feriti e incide sulla nostra salute mentale. In alcuni Paesi, poi, si sta già ricorrendo ai lockdown climatici. Iniziamo oggi a capire come prevenire le vittime di alluvioni o di ondate di calore. Iniziamo a capire come proteggere i nostri boschi dagli incendi e i nostri polmoni dallo smog. Rallentiamo, prima che un Pianeta sempre più ostile ci constringa con violenza a farlo. O ci ritroveremo, di nuovo, alle prese con bollettini e mappe interattive, e a raccontare a chi muore che, in fondo, si è trattato solo di una spiacevole parentesi nella nostra travolgente corsa verso…verso cosa?

Sono Laureata in Lingue e letterature straniere e ho frequentato la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Mi occupo principalmente altro…