Si possono liberare gli oceani dalla plastica?

Progetti ambiziosi, idee giovani, forza di volontà e passione per l’ambiente. Tutti noi vorremmo che i nostri mari fossero una volta per tutte liberi e puliti dalle milioni di tonnellate che vi galleggiano. Eppure la sfida è più grande di come sembra. E soprattutto, è inutile pulire se prima non si impara a non sporcare.
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Rubrica a cura di Sara Del Dot
24 Maggio 2019

È ormai un bel po’ che in questa rubrica ti parlo del problema della plastica negli oceani. Ti ho dato numeri, dati, ricerche e studi, abbiamo analizzato i danni che le microplastiche possono provocare all’ecosistema marino, abbiamo conosciuto le spaventose isole di plastica che galleggiano tra i continenti. Ma ora è il momento di pensare anche a quali possono essere le soluzioni a questo problema. O meglio, quelli che sono (e saranno) i tentativi, se non di risolverlo, almeno di arginarlo.

Potrebbe sembrarti (e probabilmente lo è) un’idea infantile, eppure quando mi imbatto in video, foto e immagini di milioni di pezzi di plastica galleggianti penso che l’unica cosa da fare sia prendere un’enorme rete e raccoglierli tutti, esattamente come quando il bagnino usa quella retina con il manico lunghissimo per raccogliere le foglie dalla piscina. Facile, no? Bene, guarda questo video.

La quantità di immondizia che affolla questo e tanti altri luoghi del mondo è tale da non consentire neanche di pensare concretamente al problema. Se guardando queste immagini ti venisse da pensare “perché mai dovrei impegnarmi a raccogliere della plastica da terra e tenere puliti i luoghi in cui vivo, se poi in alcune zone del mondo la situazione è questa?” non mi sentirei neanche di darti torto. Eppure è altrettanto chiaro che non possiamo sempre voltarci dall’altra parte. I fiumi e gli oceani del mondo vanno liberati, vanno lasciati respirare, una bottiglia alla volta, un rifiuto alla volta. Una soluzione deve essere trovata. E molto presto anche.

A dire la verità, alla ricerca di questa soluzione ci sono già andati in tanti. Sebbene infatti l’indifferenza faccia da padrona in situazioni come queste, non devi pensare che non siano stati concepiti progetti e strumenti basati proprio sul concetto di raccolta della plastica e pulizia dei mari. Anzi! Sono tanti gli amanti del mare in tutto il mondo, in particolare persone giovani e dinamiche, che hanno lavorato anche per diversi anni per produrre delle soluzioni che consentissero di riportare a terra tutta la plastica galleggiante negli oceani e, ancora prima, nei fiumi. Di questi ultimi, principali canali di inquinamento degli oceani, abbiamo già parlato, e così anche dei progetti in corso per arginare la plastica che vi scorre ogni giorno senza sosta.

Ma è in mezzo al mare che si consuma la vera sfida. Perché l’oceano è immenso, imprevedibile, non ha confini ben visibili e per installarci uno strumento di raccolta e pulizia è necessario valutare tutta una serie di fattori, come ad esempio come portare via la plastica raccolta, come recuperarla, come fare manutenzione in caso di problemi tecnici, in che modo monitorare efficacemente l’andamento di uno strumento del genere, e anche come recuperare anche le microplastiche che si staccano dalle parti più grandi depositandosi sul fondo degli abissi.

I progetti e le idee, però, non mancano. In alcuni casi hanno funzionato, principalmente su piccola scala, in altri invece gli ostacoli sono stati subito evidenti. Perché, purtroppo, non basta una grande rete da piscina per risolvere il problema, ma spesso la passione e la determinazione impediscono di gettare la spugna.

L’ha capito bene Boyan Slat, il poco più che ventenne olandese su cui il mondo intero per anni ha investito soldi e soprattutto tante speranze. La notizia della sua grande invenzione, The Ocean Cleanup, ha fatto sognare migliaia di persone che finalmente vedevano il Great Pacific Garbage Patch essere spazzato via da un vettore di 600 metri. Eppure Wilson, così si chiama la sua creatura, dopo mesi dalla sua partenza ancora non riesce a compiere il suo dovere in modo efficace. Perché le correnti sono troppo veloci, perché il mare è imprevedibile, perché non tutto sembra facile come sembra.

Diversamente è accaduto per il Seabin Project, il bidone degli oceani made in Australia. Realizzato in scala molto più piccola e arrivato anche in Italia ormai da un po’, questo piccolo contenitore risucchia e raccoglie l’immondizia nei porti e nelle zone marine vicine alla costa, consentendo di recuperare sia pezzi di plastica sia olii e microparticelle. Naturalmente, anche questa è una soluzione in scala ancora troppo ridotta.

Ti ho citato solo due progetti (se siano i più celebri non lo so, ma di sicuro sono i miei preferiti) delle decine che, ancora in stadio embrionale, mirano a rendere il mondo un posto migliore ripulendo gli oceani dal mare di plastica da cui sono essi stessi sommersi. Un obiettivo tanto degno di lode quando complicato perché, purtroppo, non esiste un sacco abbastanza grande da poter contenere tutto ciò che il nostro mare, nel corso di decenni di indifferenza, si è trovato costretto ad accogliere.

Detto questo, è importante sottolineare un concetto. Eliminare la plastica dagli oceani, attraverso vettori di quasi un chilometro, bidoni risucchia immondizia, macchine mangia-rifiuti, con le reti, con le mani, con i sacchi neri, sicuramente è un’azione necessaria. Ma intervenire su ciò che già galleggia in acqua sarà inutile se prima non si interviene sul proprio comportamento e sulla produzione stessa di questi rifiuti. Perché la plastica non si trova solo nell’oceano Pacifico. La plastica è in mare, a terra, sulle cime delle montagne, sotto la superficie terrestre, dentro al nostro stomaco.

Cosa serve sapere ancora per iniziare a preoccuparsi veramente?

Questo articolo fa parte della rubrica
Sono nata e cresciuta a Trento, a due passi dalle montagne. Tra mille altre cose, ho fatto lunghe passeggiate nel bosco altro…