No Tav: la valle resistente per il proprio territorio contro la grande linea ferroviaria

La chiamano “grande opera inutile” e da decenni non smettono di contrastarla. Il movimento No Tav vede la luce in val di Susa dalla volontà degli abitanti di non subire uno stravolgimento a causa di un progetto che una volta ultimato sarà già obsoleto.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Rubrica a cura di Sara Del Dot
21 Febbraio 2020

Ne sappiamo riconoscere subito le bandiere, sentiamo parlare delle loro manifestazioni, probabilmente conosciamo anche alcuni cori e slogan. Dei No Tav si parla da molti anni e nei loro confronti si può facilmente dire che l’opinione pubblica sia divisa in due. C’è chi li considera solo “vandali dei centri sociali” e chi invece crede che la loro battaglia sia non soltanto giusta, ma necessaria. Forse non sai che, tra quelle migliaia di persone che a volte vedi sfilare sventolando la bandiera bianca con il treno, non ci sono solo giovani universitari anarchici, ma soprattutto uomini, donne e bambini di tutte le età, abitanti della Val di Susa che hanno visto la loro terra essere trattata come merce di scambio e come un suolo di cui qualcun altro ha scelto di appropriarsi e hanno quindi deciso che era giusto e doveroso dire la loro. Anche se si trattava di un’opinione impopolare e non condivisa politicamente.

Per comprendere le origini e la missione di questo movimento di protesta ormai da anni parte della storia sociale e politica del nostro Paese, si può quindi partire da un unico luogo, una piccola valle in Piemonte.

Una valle per anni attenzionata e resa oggetto di diversi interventi industriali e di “crescita” culminati nel progetto di una nuova linea ferroviaria, da aggiungersi a quella già esistente del Frejus, che colleghi Torino a Lione in un tempo molto ridotto. Un’opera presentata come opportunità economica, lavorativa e di apertura del Paese verso l’Europa, ma la cui realizzazione andrebbe a modificare profondamente il territorio intaccandone le risorse naturali, mettendo a rischio la salute della popolazione che non è stata in alcun modo coinvolta nei processi decisionali, ma anzi, è stata costretta a subirli dall’inizio alla fine.

Il progetto rappresenta infatti il connubio di tutta una serie di concetti a cui è impossibile pensare di non opporsi, almeno per coloro che amano quella terra e credono nell’autodeterminazione delle comunità che la abitano. Nella volontà di realizzare quell’opera, è evidente la mancanza di rispetto nei confronti della composizione naturale di un territorio e dei suoi abitanti, la scorretta gestione del patrimonio pubblico speso in una grande progetto considerato inutile, l’indifferenza verso le conseguenze di questa costruzione sulla salute e sull’ambiente.

Così, gruppi di abitanti tra cittadini, figure istituzionali ma anche tecniche come scienziati, docenti e ricercatori, si uniscono dando vita a un vero e proprio movimento, un movimento che si pone dichiaratamente contro questa opera, contro questo treno, contro tutto ciò che porta con sé. Un movimento che presto coinvolgerà anche individui provenienti da tutta l’Italia.

Fino al 1995, anno in cui viene organizzata la prima grande manifestazione a Sant’Ambrogio di Torino, le proteste avvengono un po’ in sordina. A partire dall’anno successivo, invece, i media iniziano a seguire con interesse ciò che sta accadendo in quella parte del Paese, anche a causa dell’intervento di alcuni gruppi che manifestano il dissenso attraverso azioni più violente, con scontri e atti intimidatori, frange estremiste (tra cui alcune che firmano le proprie azioni con l’appellativo “lupi grigi”) da cui il movimento spesso si dissocia ma i cui interventi finiscono per creare nelle forze dell’ordine la necessità di trovare un colpevole, individuato in tre ragazzi che nel 1998 vengono arrestati con l’accusa di terrorismo, due dei quali si suicideranno in stato di detenzione poco dopo. Sono Soledad Rosas, Edoardo Massari e Silvano Pelissero, l’unico ancora in vita. In seguito, tutti e tre verranno sollevati dalle accuse a loro carico, anche se troppo tardi per Soledad ed Edoardo.

Le manifestazioni, anche quelle di solidarietà, proseguono, con fiaccolate e cortei per manifestare sdegno, dissenso e contrarietà nei confronti degli espropri forzati a cui i cittadini vengono sottoposti per consentire la realizzazione del cantiere e quindi dell’opera, ma anche del numero sempre maggiore di arresti e detenzioni. Intanto, la costruzione dell’opera non fa che subire rallentamenti ed è tuttora lontana dal un completamento.

Ancora oggi, dopo trent’anni, la tensione è ancora alta e le azioni repressive impietose. Ne è esempio lampante Nicoletta Dosio, 73 anni, insegnante di latino e greco al liceo di Bussoleno, che da ormai quasi due mesi è rinchiusa nel carcere Le Vallette di Torino, dove dovrebbe permanere per circa un anno con l’accusa di violenza privata e interruzione di pubblico servizio per aver aperto le sbarre di un casello autostradale durante una manifestazione No Tav avvenuta nel 2012.

Un arresto dichiarato da diverse personalità, anche dichiaratamente contrarie alle idee No Tav, sproporzionato e dimostrativo, che lascia intendere come il confronto e la tensione dovuti a questa costruzione siano ancora accesi e le azioni di contrasto confuse e nocive.

Questo articolo fa parte della rubrica
Sono nata e cresciuta a Trento, a due passi dalle montagne. Tra mille altre cose, ho fatto lunghe passeggiate nel bosco altro…