Come l’inquinamento influenza la diffusione del Covid-19: cosa dicono gli studi pubblicati fino ad ora

Ormai diversi esperti confermano il medesimo problema: l’inquinamento atmosferico indebolisce l’apparato respiratorio e lo rende più debole di fronte a un’infezione come il Covid-19. Perciò non solo avrai maggiori probabilità di ammalarti, ma anche di sviluppare una patologia più grave. Questa pandemia insomma è stata ampiamente favorita dall’azione dell’uomo sull’ambiente.
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Giulia Dallagiovanna 12 Settembre 2020
* ultima modifica il 23/09/2020

Tra la pandemia di Covid-19 e l'inquinamento c'è un legame molto stretto. Così come c'è tra la diffusione del Covid-19 e i cambiamenti climatici. Insomma, questa situazione ce la siamo un po' provocata da soli. Forse non del tutto, ma l'essere umano ha sicuramente contribuito in buona parte, dimenticandosi di vivere su questo Pianeta e di appartenere al mondo animale pure lui. Un po' come se vedessi una persona sull'orlo di un precipizio e invece che porgerle la tua mano e aiutarla a togliersi dal pericolo, le dessi l'ultima spinta. Forte, peraltro. Perciò, proprio per cercare di evitare che un evento simile ricapiti nel giro di pochi anni (sì, pochi) iniziamo a sviscerare quale ruolo abbia rivestito l'inquinamento in tutta questa situazione. Di studi ne sono usciti diversi e fin da subito gli esperti hanno capito che non era un caso se il SARS-Cov-2 si era dimostrato aggressivo soprattutto nella Pianura Padana. Proviamo quindi a partire da questa base e a costruire insieme un ragionamento che dovrebbe tornare utile per il futuro.

Lo studio dell'Università dell'Aquila

Ultimo in ordine di tempo è uno studio italiano in attesa di pubblicazione. Sono stati alcuni ricercatori dell'Università dell'Aquila a puntare ancora una volta il dito contro l'inquinamento atmosferico e le polveri sottili. Se ne è occupato in particolare l'immunologo Mauro Minelli, che è anche referente per il Sud Italia della Fondazione medicina personalizzata, che ha presentato i risultati preliminari direttamente sulla sua pagina Facebook, all'interno della sua rubrica BiomedicalReport.

Nello specifico quello che ha dimostrato il team di ricerca è che i livelli di particolato Pm2.5 e di biossido di azoto, due componenti di quello che comunemente chiamerai smog, sono direttamente collegati ai tassi di incidenza dell'infezione. Naturalmente giocano un ruolo anche la densità della popolazione, che favorisce il contagio, e l'anzianità della persona. Ma a parità di condizioni, una maggiore concentrazione di queste sostanze tossiche nell'aria, fosse anche un aumento di un solo microgrammo per metrocubo, ha favorito un aumento dei casi di circa 2,79 ogni 10mila abitanti per quanto riguarda il Pm2,5 e di 1,24 se si guarda al biossido di azoto. E tutto questo per una ragione che in realtà è piuttosto semplice da intuire: una più lunga o più intensa esposizione a queste particelle, indebolisce il tuo apparato respiratorio e lo rende più predisposto a contrarre una malattia grave. Quindi si aggiunge anche l'aumento del rischio di mortalità. "L'infezione da Sars-CoV-2 può causare gravi malattie polmonari indotte proprio dagli effetti del Pm2.5", ha concluso Minelli.

I primi a ipotizzarlo

I risultati del lavoro del team di Minelli sono importanti perché per la prima volta ti consegnano una stima dell'aumento dei contagi a causa dell'inquinamento. Ma che vi fosse un legame tra smog e Covid-19 lo si sostiene fin dagli inizi dell'emergenza. Il 5 aprile 2020 l'Università di Havard aveva pubblicato uno studio nel quale poneva l'accento sul rapporto tra la maggiore concentrazione di Pm2.5 e la probabilità di morire di Coronavirus. Gli esperti allora, nel pieno della pandemia, avevano ipotizzato addirittura un 15% in più di decessi.

"Sicuramente l'inquinamento è un fattore predisponente per una malattia di questo tipo. Per chi vive in un ambiente inquinato nascono delle malattie come asma, malattie cardiorespiratorie e cardiocircolatorie, le quali, all'arrivo di un virus di questo tipo, predispongono la persona a sviluppare conseguenze più gravi", spiegava ai microfoni di Ohga Antonello Pasini, Fisico del Clima del Cnr.

Le conferme da altre ricerche

Attorno alla metà di aprile arrivano ben due conferme di questo legame. Sono studi italiani, ad opera dei ricercatori dell'Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima ISAC-CNR di Roma e di Lecce e di un folto gruppo di scienziati di Emilia-Romagna e Marche, ed entrambi sostengono che vivere in un luogo inquinato ti possa esporre maggiormente al contagio da SARS-Cov-2 e allo sviluppo di un'infezione grave.

Per la verità, tutti gli autori si mantengono piuttosto cauti, ma affermano tuttavia che questa evenienza sia plausibile e che dipende anche dal tempo di esposizione. Come potrai immaginare, infatti, le conseguenze dell'inquinamento sui polmoni si vedono soprattutto in chi abita in una zona piena di smog da diversi anni o magari addirittura da tutta la vita. Inoltre, aggiungono, bisogna anche valutare con più precisione quanto peso abbiano le sostanze tossiche rispetto ad altri fattori, come, appunto la densità di popolazione, l'età della persona e in generale le misure contro la diffusione dell'epidemia che sono state adottate in quel territorio.

Secondo gli esperti, bisognava anche valutare quanto peso avesse l'inquinamento rispetto ad altre variabili

"La complessità dell'argomento lo rende lungi dall'essere risolto, molti aspetti della questione richiedono ulteriori approfondimenti con approcci multidisciplinari e competenze diverse. Queste domande sono insomma ‘open challenges' per le attuali attività di ricerca", si leggeva infatti nel comunicato stampa del Cnr.

Di nuovo, però, sembra fare chiarezza la ricerca abruzzese, che tiene conto proprio delle variabili indipendenti dalle condizioni ambientali.

Ma il particolato può trasportare il virus?

Nell'indagine sul legame tra inquinamento e diffusione del Covid-19 era sorto anche questo dubbio: ma non è che le polveri sottili veicolano il SARS-Cov-2? D'altronde nei primi mesi del 2020 le epidemie erano scoppiate soprattutto in Cina, Corea del Sud e nel Nord Italia, in regioni come Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, che ogni giorno devono fare i conti con l'aria carica di particelle tossiche.

Una prima risposta era stata trovata proprio a Bergamo a seguito di uno studio della Sima, la Società italiana di medicina ambientale. I ricercatori, dopo aver prelevato 34 campioni di Pm10 da un'area industriale vicino alla città-simbolo della pandemia in Italia, hanno confermato di aver rilevato tracce dell'RNA virale attaccate a queste particelle. Perciò sì, il virus sembrava stringere un buon sodalizio con le polveri sottili. Tuttavia, questi segmenti di genoma potevano anche essere già inattivi e dunque incapaci di provocare una qualsiasi infezione. Anche perché il virus ha bisogno di un ospite al quale attaccarsi per sopravvivere e replicarsi, altrimenti muore e diventa dunque innocuo.

Gli esperti oggi sembrano essere tutti d'accordo: il problema non è che il patogeno possa essere trasmesso più facilmente in una zona più inquinata, ma che il tuo apparato respiratorio e le tue condizioni di salute in generale potrebbero essere già stati compromessi dalla presenza di particolato e quindi risultare più facilmente attaccabili dal Coronavirus.

Fonte| BiomedicalReport

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