Coronavirus, perché bisogna fare i tamponi al personale sanitario: la lettera di 13 medici di Bergamo

Non sono stati fatti i tamponi ai sanitari, non hanno ricevuto mascherine e i dispositivi di protezione di cui avevano bisogno e chi era asintomatico ha dovuto continuare a lavorare. Ecco come gli ospedali, loro malgrado, hanno giocato un ruolo cruciale nella diffusione dell’epidemia.
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Giulia Dallagiovanna 29 Marzo 2020
* ultima modifica il 22/09/2020

"Ci serve un piano per la prossima pandemia". La lettera inviata da 13 medici dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo al New England Journal of Medicine è chiara: gli ospedali hanno contribuito e non di poco alla diffusione del Coronavirus. E questo è stato possibile perché non sono stati fatti i tamponi a tappeto ai sanitari, non sono stati reperiti tutti i dispositivi di protezione necessari, non sono stati isolati subito i pazienti con il Covid-19 dagli altri. O, detto in poche parole, perché non eravamo assolutamente pronti a quello che sarebbe potuto accadere.

Te la ricorderai anche tu, probabilmente, quella mattina del 21 febbraio, quando hai letto sul giornale che a Codogno, un provincia di Lodi, era stato trovato il primo caso italiano di Coronavirus. E forse all'inizio non hai realizzato quello che stava accadendo. Sicuramente, non lo hanno fatto la rete sanitaria e il governo, che hanno lasciato passare un po' di giorni prima di prendere le decisioni più drastiche e necessarie. D'altronde, diversi esperti sostenevano anche in televisione che si trattasse di poco più che una banale influenza.

E così, se non fosse stato per la caparbietà di un'anestesista di Codogno, che ha letteralmente infranto il protocollo, avremmo dovuto aspettare di ritrovarci con le terapie intensive piene, prima di appurare la presenza del SARS-Cov-2 in Italia.

Le mascherine e gli altri dispositivi non arrivavano, e chi era asintomatico doveva continuare a lavorare

Le mascherine però non sono arrivate lo stesso e nemmeno le visiere, le tute protettive e tutti gli altri strumenti necessari per ridurre al minimo il rischio di contagio. Il risultato è che il 9% di tutti i casi positivi sono operatori sanitari. Ma non finisce qui. A chi lavorava in un ospedale non è nemmeno stato fatto il tampone. E magari alcuni di loro erano entrati in contatto con persone infette o vivevano con qualcuno che aveva già sviluppato i sintomi tipici. La normativa però era chiara: chi non mostra le classiche manifestazioni deve continuare a presidiare le corsie. Anche perché, come sappiamo, in Italia c'è una grave carenza di personale.

Ed ecco come non abbiamo protetto i nostri medici e i nostri infermieri, ma anche come i pazienti, ricoverati per altri motivi, sono entrati in contatto con il virus. Gli ospedali sono diventati dei veri e propri incubatori dell'epidemia. È questo l'allarme che arriva da Bergamo ed è una lezione che dovremmo imparare per il futuro.

"Questa emergenza non è solo legata alle terapie intensive, ma è una crisi umanitaria e di tutta la sanità pubblica", fa notare ancora la lettera. I medici propongono di implementare le cure da casa e di concepire l'ospedale non come un centro di assistenza incentrato sul paziente, ma come focalizzato sull'intera comunità. Dunque, deve diventare l'ultimo passaggio di una procedura iniziata a distanza. Con l'implementazione della telemedicina, della distribuzione di dispositivi di monitoraggio come i saturimetri e della somministrazione presso la propria abitazione delle prime terapie a base di ossigeno, prima di passare alle ventilazione automatica vera e propria. E poi bisogna testare prima di tutto i sanitari, come stanno chiedendo ormai da settimane.

Bisogna insomma riconcepire il sistema, perché quello che abbiamo oggi non era evidentemente preparato a una pandemia.

Fonte| "At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation" pubblicato sul New England Journal of Medicine il 21 marzo 2020

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