Una scatola di titanio, alluminio e altri materiali freddi ma iper resistenti. Una sfilza di bottoni e pulsanti gialli, rossi, azzurri, verdi e labirinti di fili attorcigliati che spuntano da computer e monitor.
E poi scarpe, penne e quaderni fluttuanti e lì, in basso, un piccolo oblò, al di là del quale si estende un mare di niente. Anzi, un mare di tutto: stelle, pianeti, misteri, domande e qualche risposta.
Alzando gli occhi al cielo, sarà capitato anche a te di immaginarti lanciato nello spazio più profondo e probabilmente ti sarai visto a bordo della stessa astronave che ci siamo immaginati noi.
Anche tu però, come noi, qualche volta ti sarai trovato accanto a quel distruttore di sogni. A quel qualcuno che mentre immaginavi ti ha sussurrato all’orecchio il mantra dei soliti borbottoni, la polemica sterile di chi guarda in alto e si ferma alla pioggia: “Che ci andiamo a fare nello spazio con tutti i problemi che abbiamo sulla Terra?”.
Ecco: oggi, in occasione della terza Giornata Nazionale dello Spazio (stabilita in onore del lancio del primo satellite italiano nello spazio nel 1964), troverai una prima risposta da rifilargli non appena ne avrai l’occasione.
Sì, perché nel grande ecosistema in cui viviamo, tutti gli elementi che lo costituiscono sono interconnessi con l’uomo e il Pianeta, compreso lo spazio.
L’esplorazione del cosmo e le tecnologie pensate per risolvere i problemi cui vanno incontro gli astronauti, infatti, rappresentano da anni la soluzione per molte delle sfide che affrontiamo tutti i giorni qui, con i piedi ben sprofondati nel terreno.
Ti faccio un esempio. Immagina una piantina di basilico che cresce all’ombra di una luce led di colore viola sulla mensola della tua cucina. Giorno dopo giorno cresce e si alza, fino a diventare talmente grande – e buono – da permetterti di farne un pesto coi fiocchi.
Dentro quest’immagine c’è una tecnica di coltivazione a impatto quasi zero e in grado di fornire cibo sano. E senza gli stessi effetti negativi delle coltivazioni intensive o dei trasporti su gomma.
C’è, insomma, un futuro che non è affatto fantascientifico o irraggiungibile ma che invece è già presente, in larga parte proprio grazie alle missioni spaziali.
Durante questi viaggi tra le stelle, gli astronauti devono fare i conti con la necessità di avere alimenti freschi per un periodo di tempo lungo e risorse assai limitate a disposizione.
Nello spazio non c’è il terriccio da inseminare, l’acqua non è illimitata, non si può dipendere dai raggi del sole e soprattutto – e paradossalmente – non c’è spazio.
La Nasa, come altre agenzie spaziali, ha lavorato anni per trovare il modo di produrre cibo in condizioni così estreme e le soluzioni a questo problema hanno consegnato all’uomo tecnologie capaci di ispirare una nuova rivoluzione agricola qui, sulla Terra.
L’idea da cui sono partiti gli scienziati era far sì che le piante, una volta trasportate nello spazio, riuscissero a riciclare i rifiuti trasformandoli in nutrimenti, a produrre ossigeno respirabile rimuovendo CO2 dall’aria e, allo stesso tempo, a fornire cibo fresco da integrare ai pasti degli astronauti.
Gli esperti della Nasa si sono quindi messi al lavoro prendendo in prestito una struttura di produzione di biomassa costruita alla fine degli anni ’80 all’interno di una camera iperbarica fuori uso dai tempi dei test sulla capsula spaziale Mercury.
Ne hanno quindi modificato l’interno riuscendo a creare una vertical farm completamente operativa. Ovvero un sistema chiuso e circolare in cui ogni singolo elemento, dall’acqua all’aria fino alle sostanze nutritive, era stato riciclato rendendo il processo autonomo e in grado di autoalimentarsi, tanto nello spazio quanto sulla Terra.
Se avessi messo piede dentro questa camera, avresti trovato file di vassoi impilati uno sopra l’altro in un altissimo muro di scaffali, alimentati da flussi di acqua e sostanze nutritive e da un sistema di lampade a LED per simulare la luce solare.
Avresti visto, poi, le foglie delle piante far circolare l’aria in modo da consentire di rimuovere il calore in eccesso, controllare l’umidità e mantenere stabili e adeguate le condizioni ambientali.
Questo progetto di coltivazione di piante senza suolo e con una quantità minima di acqua, dallo spazio è tornato sulla Terra e ha ispirato varie aziende agricole a migliorare le proprie tecnologie di vertical farming realizzando sistemi idroponici innovativi.
Qui, le piantine di verdure a foglia verde, frutta ma anche erbe aromatiche, caffè e cacao vivono in strutture appese al soffitto, bagnate da rigagnoli di acqua e nutrienti raccolti, filtrati e riutilizzati per altre piantine. Un muro di vegetazione vivo e produttivo dall’alto verso il basso insomma.
Queste tecnologie oggi permettono di pensare che l’uomo possa davvero affrontare viaggi spaziali di durata sempre maggiore, magari per provare a mettere piede su Marte senza morire di fame. Se stai pensando alla coltivazione di patate marziane vista nel film con Matt Damon, considera che non è poi così fantascientifica.
Sulla Terra, invece, queste innovazioni hanno offerto diversi vantaggi al mondo dell’agricoltura sostenibile. Pensa per esempio ai benefici che derivano dalla possibilità di riutilizzare più volte ogni singola risorsa del sistema, con un consumo bassissimo di energia.
Un simile approccio circolare, insieme al mantenimento costante di condizioni di crescita sempre ideali, permette di ottimizzare lo sviluppo di piante garantendo un raccolto costante tutto l’anno, a prescindere dalle condizioni meteorologiche.
La non necessità, pressoché totale, di pesticidi e fitofarmaci contribuisce poi alla produzione di piante e quindi cibo sempre più fresco, sano e saporito.
Uno dei princìpi cardine del vertical farming, come puoi intuire, risiede poi nella sua ubiquità. Nel senso che la coltivazione circolare che si struttura in maniera verticale può essere avviata in qualsiasi parte del mondo, come nel cuore di grandi città e metropoli urbane.
Sistemi che permettono la coltivazione al chiuso non rappresentano solo un modo per riportare angoli verdi tra auto e cemento ma diventano efficaci strumenti di riqualificazione urbana di come edifici inutilizzati, grattacieli, vecchi magazzini o container.
Un utilizzo più efficiente dello spazio che già abbiamo a disposizione, permetterebbe anche di non doverne rubare altro al pianeta, contrastando quindi il grave fenomeno del consumo di suolo (come bene sappiamo fare in Italia).
La distanza azzerata tra produttore e consumatore offerta da soluzioni di vertical farming contribuirebbe poi a tagliare le emissioni dovute ai trasporti delle merci su mezzi pesanti, che come sai sono tra i principali responsabili della pessima qualità dell’aria che respiriamo.
L’inquinamento atmosferico è una emergenza reale: secondo l’Agenzia europea per l’Ambiente, solo nel 2021 sarebbe costato la vita a più di mezzo milione di persone in tutta Europa.
Facciamo un piccolo passo indietro: ricordi il basilico che cresce sulla mensola della tua cucina? Non ho scelto la luce viola per caso. Diverse ricerche di fotobiologia dimostrano, infatti, che la combinazione di luci blu e rosse – da cui deriva appunto il viola – contribuiscono a migliorare la crescita delle piante.
L’esposizione a raggi di colore blu favorisce infatti la crescita dei loro organi, dagli steli alle foglie, che diventano più spessi e verdi.
Il rosso, pur offrendo meno energia rispetto al blu, permette invece alla pianta di sviluppare i fiori ma allo stesso tempo stimola i processi di fotosintesi.
La loro combinazione favorisce insomma una crescita sana e assai prospera. L’utilizzo di LED invece garantisce un basso consumo di energia e slega dalla dipendenza dalla luce solare.
Sulla Stazione Spaziale Internazionale, sistemi di questo tipo sono già attivi da tempo. Due appartengono alla cosiddetta “unità Veggie” e sono semplici camere di produzione vegetale, una terza stanza invece contiene un nuovo sistema di crescita delle piante – chiamato Advanced Plant Habitat – che integra il controllo manuale dell’ambiente di crescita da parte degli astronauti con funzioni gestite autonomamente da sistema intelligenti.
L’importanza degli impatti delle tecnologie spaziali sulla Terra suona ancora più forte se consideri il quadro più ampio che ci attenderebbe da qui a qualche decennio.
Secondo la scienza, infatti, la popolazione mondiale potrebbe aumentare di oltre 2 miliardi di persone entro il 2050 e l’agricoltura così come la conosciamo oggi potrebbe non riuscire a soddisfare la domanda di cibo di un Pianeta così affollato.
Da tempo, infatti, arriviamo all’Overshoot Day, il giorno in cui finiamo le risorse forniteci dal Pianeta, con sempre maggior anticipo rispetto all’anno precedente.
I cambiamenti climatici, con l’aumento delle temperature e la maggior incidenza di eventi estremi, stanno infine mettendo a dura prova il settore agricolo già da parecchio. Pensa alle inondazioni che distruggono campi e raccolti ma anche, all’opposto, ai periodi di grande siccità che finiscono letteralmente per bruciare la terra.
Un uso intelligente e virtuoso delle risorse idriche è fondamentale non solo per ottimizzare le coltivazioni ma anche per contrastare l’emergenza a cui sono costretti i cosiddetti paesi “estremamente ad alto rischio”, caratterizzati da servizi essenziali totalmente inadeguati a causa della mancanza di acqua potabile, pulita e utilizzabile per i servizi igienico-sanitari e l’assistenza sanitaria.
Che cosa ci andiamo a fare nello spazio quindi?
A “salvare” il pesto, per esempio. Più in generale, dobbiamo renderci conto che con le missioni spaziali troviamo davvero soluzioni che ci permettano di sopravvivere e di adattarci ai cambiamenti a cui siamo inevitabilmente destinati: senza distruggere il Pianeta che ci ospita, ma proteggendolo.