Inquinamento atmosferico e pandemie di virus e batteri: a volte, la soluzione si trova nello spazio

La qualità dell’aria è un tema importante qui sulla Terra come lassù, nello spazio. Tecnologie per migliorare l’aria che entra nei nostri polmoni ha permesso agli astronauti di liberarsi della polvere lunare e di salvaguardare la crescita delle piante ma le tecnologie sviluppate per risolvere questi problemi hanno avuto importanti ricadute sulla nostra vita quaggiù. Dalla ricerca spaziale sono nati, infatti, strumenti per il monitoraggio dell’aria e anche la lotta all’inquinamento indoor.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
16 Febbraio 2024

Come sulla Terra, così nello Spazio. C’è un altro elemento che è imprescindibile tanto quaggiù, dove viviamo con i piedi ben ancorati al terreno, quanto lassù, dove invece fluttuiamo senza gravità. Sì, sto parlando dell’aria.

Imprescindibile come l’acqua di cui ti ho già parlato nel capitolo precedente di questa rubrica e ugualmente minacciata da pericoli simili. Uno di questi è l’inquinamento atmosferico.

Chiariamolo subito, una differenza tra i due elementi c’è perché la natura di ciò che finisce per peggiorare la qualità dell’aria che circonda noi o gli astronauti è diversa.

Quando parlo di inquinamento atmosferico sulla Terra mi riferisco all’insieme di sostanze che circolano nell’aria che respiriamo.

Alcune di essere sono generate da attività naturali come eruzioni vulcaniche o incendi, altre invece sono provocate dall’uomo stesso attraverso le industrie, i processi chimici nelle fabbriche, i motori a combustione di mezzi di trasporto o le attività di riscaldamento.

Ciò che non cambia, però, ormai siamo quotidianamente esposti ad così alte concentrazioni di queste sostanze che gli effetti dannosi sul nostro organismo diventano ogni giorni più gravi.

Parlare di inquinamento spaziale, invece, non significa solo aprire il grande capitolo dei detriti che galleggiano sopra le nostre teste: un mantello di frammenti minuscoli, grandi e alcuni pure di dimensioni enormi che mettono seriamente in pericolo le missioni spaziali e le attività dei satelliti da cui dipendiamo.

Vuol dire, per esempio, riflettere anche sui grossi rischi legati alla polvere lunare. Frutto della frammentazione di micrometeoriti nello schianto sul suolo lunare, la “moon dust” non è proprio come la polvere che popola gli scaffali della tua libreria o i gradini della tua scala in legno.

La polvere lunare, il tipo più fine di suolo lunare, è simile nella composizione alle rocce laviche presenti sulla Terra. Si forma quando i micrometeoriti si scontrano con la Luna. Photo credit: NASA

È molto più dura, ruvida, abrasiva ed è capace di penetrare nelle tute degli astronauti così come nelle condutture dei lander o nei filtri delle stazioni spaziali, creando danni a tutto: attrezzature e polmoni.

In questa rubrica hai imparato che Spazio e Terra condividono fascino, misteri ma anche problemi simili e, spesse volte, anche medesime soluzioni. La questione di come purificare l’aria è una di queste.

Devi sapere che la polvere lunare ha causato diversi grattacapi alle missioni Apollo condotte dalla Nasa. Questi frammenti microscopici e praticamente invisibili generati dalla frammentazione delle rocce spesso infatti hanno invaso l’attrezzatura fotografica degli astronauti impedendo loro di effettuare parte dei compiti per cui si trovavano in orbita.

Delle volte, la polvere lunare ha finito per graffiare le visiere dei caschi in maniera così invalidante che gli astronauti non riuscivano a letteralmente vedere oltre il proprio vetro.

Durante la missione Apollo 17, invece, l’astronauta Gene Cernan ha inconsapevolmente respirato piccole concentrazioni di polvere proveniente dalla Luna e infilatesi dentro la sua tuta, accusando una serie di sintomi poco piacevoli.

Nel giro di poco tempo aveva cominciato a respirare a fatica e a starnutire, gli occhi hanno preso a lacrimare fortissimo e la gola gli ha fatto così male che che i medici, giù al controllo missione a Houston, hanno parlato di una sorta di nuova malattia, ribattezzandola “febbre da fieno lunare”.

Hai capito, insomma, che la polvere lunare rappresenta un grosso problema nello spazio e lo è anche in prospettiva se pensi che il cosmo – che ti piaccia o meno – sta diventando la nuova frontiera di conquista del turismo e dell’espansione umana.

L’astronauta Gene Cernan, mentre si trovava sulla superficie lunare durante la missione Apollo 17, ebbe dei problemi con la polvere lunare. La sua tuta spaziale raccolse carichi di questa sostanza grigia e polverosa, che si attaccava al tessuto ed entrava nella capsula provocando un’irritazione agli occhi, al naso e alla gola soprannominata "febbre da fieno lunare". Photo credit: NASA

Trovare un modo per tenerla lontana dagli ambienti “umani” nello spazio è fondamentale. Infiltrandosi nelle conduttore o nei sistemi di filtraggio delle tute o delle stazioni spaziali, può danneggiare tessuti sensibili come i polmoni e le cornee, causando danni a lungo termine difficilmente curabili, figuriamoci a migliaia di chilometri da primo ospedale.

La Nasa, così come altre agenzie spaziali, ha dunque investito risorse ingenti per arrivare a una soluzione. Per anni ha lavorato a un modo per sviluppare sensori capaci di misurare in maniera iper precisa la qualità dell’aria, garantire controlli efficaci e supportare così i sistemi di filtraggio dell’aria negli ambienti umani nello spazio.

Da una di queste intuizioni è infine nata Space Canary: pensata inizialmente per risolvere i problemi di polvere lunare lassù – e l’ha fatto – si è poi trasformato nel Canary-S, uno strumento che fin da subito ha cominciato a dare importanti contributi alla lotta contro l’inquinamento atmosferico qui sulla Terra.

La tecnologia Canary S, adattamento terrestre del sensore Space Canary, è in grado di monitorare le emissioni degli incendi boschivi, valutare la qualità dell’aria urbana e altro ancora. Photo credit: Lunar Outpost

Canary-S è un’unità autonoma alimentata da energia solare e una batteria che trasmette dati utilizzando la tecnologia cellulare. Tradotto, è uno strumento che analizza l’aria circostante e misura in tempo reale le concentrazioni di vari inquinanti presenti tra cui il particolato, il monossido di carbonio, il metano o l’anidride solforosa.

Una volta al minuto poi invia un messaggio a un database sicuro, restituendo una fotografia estremamente aggiornata dell’aria di una determinata area geografica.

In sostanza, Canary-S è una sorta di bussola che dice alle autorità sanitarie cosa non va, dove, perché e come intervenire per migliorare l’aria respirata dalle persone.

Nel frattempo, i dati raccolti e divulgati dalle diverse Agenzie internazionali per la gestione e il controllo dell’aria davano risultati ogni anno peggiori in tutto il mondo. Senza allontanarci troppo, considera che solo nel 2021, la pessima qualità dell’aria è costata la vita a più di mezzo milione di persone in tutta Europa.

Canary-S ha cominciato dunque a far gola a più di un Paese e molti se ne sono subito serviti. Ben 15 Stati americani per esempio l’hanno adottato, trasformandolo in uno strumento imprescindibile per il proprio servizio forestale.

L’obiettivo non era solamente proteggere i vigili del fuoco stessi, da decenni esposti ai rischi dell’avvelenamento da monossido di carbonio, ma anche aiutarli a monitorare le emissioni degli incendi boschivi in tempo reale e ad emettere per tempo avvisi e allarmi verso la popolazione.

Se strumenti simili diventassero sempre più protagonisti nelle città, potrebbero misurare il particolato nelle aree urbane e aiutare a salvaguardare un numero sempre maggiore di persone, in particolare quelle con patologie respiratorie. Tra l'altro, come ti ho già spiegato, i sintomi da inquinamento sono percepibili anche dopo una brevissima esposizione, non serve purtroppo aspettare mesi o anni.

È ciò che, per esempio, ha fatto la città di Denver, in Colorado, scegliendo di servirsi del Canary-S per raccogliere dati sulla qualità dell'aria nelle scuole locali per educare e informare insegnanti, genitori e studenti sulla qualità dell'aria locale.

Le minacce per l’aria nello spazio tuttavia sono numerose e nel corso delle proprie missioni la Nasa ne ha dovute affrontare tante, anche recentemente e una di queste ha riguardato gli ambienti adibiti alla crescita e alla coltivazione di varie specie di piante lassù.

Come ti ho raccontato nel primo capitolo della rubrica, gli astronauti hanno bisogno di cibo sano e fresco per affrontare le lunghe settimane di missione nel cosmo ma trovare metodi di coltivazione sostenibili ed efficaci è un tema che interessa anche in prospettiva anche quanto ti devo prima riguardo al turismo spaziale.

Il problema, insomma, era che in queste stanze di coltivazione a un certo punto ha cominciato a accumularsi un ormone vegetale chiamato etilene.

Senza la gravità e dunque senza possibilità di far circolare l’aria, l’etilene circondava le piante favorendone l’invecchiamento, la maturazione e quindi un appassimento prematuro. Anche in questo caso, una soluzione è stata trovata e gli astronauti non resteranno con campi incolti e aridi.

Dopo aver dato una svolta alla coltivazione spaziale, la tecnologia sviluppata per contrastare l’accumulo di etilene ha però dato una grossa mano anche qui sulla Terra, tra l’altro in uno dei capitoli più drammatici della nostra storia recente.

Tutto ruota intorno a una tecnologia chiamata ossidazione fotocatalitica. Si tratta di una tecnica per cui un fascio di luce ultravioletta colpisce il biossido di titanio, un composto chimico comune e presente in natura installato all’interno di un dispositivo ad hoc.

Questo rilascia così una certa quantità di elettroni che, combinandosi con le molecole di ossigeno e acqua nell’aria circostante, attirano i contaminanti organici tra cui l’etilene e trasformandoli in anidride carbonica e acqua.

Un modo per prendere due piccioni con una fava, direbbe qualcuno. Sì, perché così non solo si elimina un agente nocivo per le piante ma si innesca anche un sistema circolare che permette di trarre da questi ultimi nutrimenti utili per le coltivazioni stesse. Le fave, però, sono diventate addirittura tre.

Gli scienziati, infatti, hanno scoperto che tra gli inquinanti che l’ossidazione fotocatalitica era in grado di distruggere c’erano anche composti organici volatili nonché spore di muffe, batteri e virus. Sì, virus come Sars-CoV-2.

Prima del Covid-19, la qualità dell’aria era un tema a cui pochi ponevano attenzione ma quando poi è diventato chiaro che il contagio avveniva attraverso l’inalazione delle famose droplets, le tecnologie per la purificazione dell’aria degli spazi al chiuso hanno cominciato a diffondersi con maggior frequenza.

Hanno cominciato a vedersi negli ospedali e in quei luoghi dove vi era un’alta concentrazione di persone come centri commerciali, uffici pubblici o aeroporti ma anche nelle case, nelle scuole e sui posti di lavoro. La purificazione dell’aria, insieme alla vaccinazione, alle mascherine e alle misure di protezione ha contribuito in maniera importante a ricacciare indietro la pandemia.

Questo non significa che possiamo continuare il rischio di un’altra pandemia – l’antibiotico-resistenza? – convinti che la soluzione ci pioverà sulla testa dallo spazio. Il Covid-19 o altre minacce come l’inquinamento – indoor e atmosferico – ci ricordano che dobbiamo intervenire ogni giorno per contrastarle.

Queste storie, tuttavia, ci ricordano che alzare gli occhi verso il cielo e le altre stelle e continuare ad esplorare male non ci farà.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…