La storia di Cristina, e di come ha cacciato il tumore ovarico fuori dalla sua vita sessuale

A 37 anni, Cristina Bignotti ha dovuto affrontare la diagnosi di tumore ovarico, la chirurgia di asportazione e tutte quelle che sono state le conseguenze. Comprese le difficoltà legate alla sfera sessuale e la paura di non riuscire più ad avere figli.
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Kevin Ben Alì Zinati 12 Dicembre 2023
* ultima modifica il 13/12/2023
In collaborazione con Cristina Bignotti e Fabio Landoni Ex paziente oncologica e vicepresidente Acto Lombardia; Direttore della Ginecologia Chirurgica al San Gerardo di Monza, professore associato in Ginecologia e Ostetricia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca

Quando sul foglio che torna indietro dalle mani del medico c’è scritto «tumore», non ci sono molti luoghi in cui poter respirare liberamente e lasciare per un attimo fuori tutto il resto, che non parla d’altro se non di malattia.

Qualcuno cerca quel luogo nelle braccia di un marito, di una compagna, di un fidanzato: nell’incontro di spiriti e di corpi che solo l’amore e l’affetto sanno offrire.

Per alcuni, l’universo sessuale resta un mondo in cui tutto ciò che riguarda la patologia oncologica non entra e dove vince quella «normalità» rubata dalla diagnosi, anche se per poco tempo.

Ci sono persone, tuttavia, a cui il tumore toglie anche quel nascondiglio. A volte, anche quel cantuccio di mondo, sacro e inviolabile, viene invaso dal tumore, che come una macchia di petrolio nell’oceano si espande in ogni ambito della vita fino ad inquinare anche quell’angolo così intimo e privato.

È successo a Cristina Bignotti che a 37 anni si era appena sposata con suo marito Valerio, progettava di metter su famiglia e all’improvviso si è trovata di fronte a quel foglio: tumore ovarico.

“Dopo la diagnosi, la vita sessuale con mio marito non era quella che c’era prima. Sia prima delle cure, quindi subito dopo l’intervento, che durante le cure vedi il fisico che cambia completamente e fai fatica anche ad affrontare quel momento”. Si fa fatica a varcare le soglie di quel mondo ed affidarsi a un momento di intimità con il proprio partner.

Ce l’ha spiegato Cristina, che insieme ad altre donne ha raccontato la propria esperienza nel primo Libro bianco illustrato sul tumore ovarico, un progetto promosso dall’Alleanza contro il tumore ovarico e con il patrocinio di “Salute: un bene da difendere un diritto da promuovere”, AIOM, MaNGO e MITO, Società Italiana di Cancerologia e con l’adesione delle Associazioni Loto e Mai più sole.

Nel momento in cui ha ricevuto la diagnosi, le eventuali ricadute sulla propria sessualità, Cristina non le aveva nemmeno prese in considerazione. Il suo pensiero era completamente spostato su altro, su se stessa e sul futuro della famiglia, più che della coppia.

Quando senti parlare di tumore dell’ovaio devi pensare all’ottava neoplasia più diagnosticata tra la popolazione femminile e tra le più gravi in termini di mortalità, a causa soprattutto della mancanza di screening e di diagnosi precoci.

Considera poi che tendenzialmente colpisce le donne oltre i 50 anni, con 5mila nuovi casi ogni anno (per un totale, oggi, di circa 50mila donne che convinto con questo tumore).

Nonostante la paura e le tempistiche un po’ troppo anticipate, Cristina non era del tutto impreparata alla notizia.

La stessa patologia era costata la vita non solo a sua nonna e anche a sua mamma. “Quando è arrivata la diagnosi mi sono sentita in colpa nei confronti della mia famiglia. Non avevo trascurato dei sintomi all’apparenza banali come un’eccessiva stanchezza o un gonfiore addominale ma anzi, mi ero subito insospettita. Nonostante la frequenza con cui mi controllavo la malattia, comunque era arrivata lo stesso”.

Quando Cristina l’ha scoperto, il tumore era tuttavia ancora in fase iniziale. “Nella sfortuna di incontrare una malattia di questo tipo, la sua fortuna è stata quella di avere un tumore limitato a un ovaio, per cui è possibile eseguire un percorso conservativo rispettoso dell’apparato genitale, cioè dell'utero e dell'ovaio controlaterale” ci ha spiegato Fabio Landoni, direttore della Ginecologia Chirurgica al San Gerardo di Monza, professore associato in Ginecologia e Ostetricia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e tra i vari esperti a cui si è affidata Cristina nel corso del tempo.

Cristina, infatti, ha scelto volontariamente di sottoporsi a un percorso chirurgico di di questo tipo, assumendosi tutti i rischi che tale scelta avrebbe comportato. “I medici mi hanno prospettato tutto ciò che avrei dovuto affrontare. Tra queste cose c’era anche la menopausa farmacologica, quindi una procedura che avrebbe potuto avere effetti anche sulla sfera sessuale perché capace di bloccare completamente qualsiasi voglia di avere un rapporto”. 

E così è stato. La vita sessuale, per Cristina, era diventato un mondo inaccessibile. Lontano. “Nell’ambito della storia di Cristina, un’eventuale problematica sarebbe stata più di ordine psicologico che non fisica, perché la parte genitale era rimasta – ha specificato il prof. Landoni – La capacità di avere rapporti non era impedita da distorsioni anatomiche legate alla chirurgia o alla malattia. Si tratta di un aspetto poco generalizzabile perché dipende dal tipo di malattia, dallo stadio di malattia e soprattutto dal modo di porsi da parte della paziente”.

Cristina aveva sempre dato alla sessualità un ruolo molto, molto importante all’interno della vita di coppia e i primi tempi pre e post diagnosi non sono stati per niente facili. Ti vergogni di come sei fisicamente e pensi di non piacere più alla persona che ti sta accanto – ha raccontato – Dopo l’intervento rimangono le cicatrici, rimangono tante cose che non ti fanno sentire uguale a prima e succede che cose che prima erano più naturali dopo non lo sono più così tanto”.

Il ruolo di suo marito Valerio in tutto questo periodo però è stato determinate: le parole, i gesti, la presenza dell’altra metà di quell’incontro di spiriti e di corpi sono stati l’àncora a cui aggrapparsi per uscire da quelle sabbie mobili.

Cristina ce l’ha raccontato con un sorriso orgoglioso, ammirato, intimo. “Mio marito mi ha sempre spronato a vedere l’aspetto positivo in me, specie nei momenti in cui avevo finito le cure, evidenziando che mi stavo rimettendo e che stavo meglio. Mi portava a camminare e faceva di tutto per farmi sentire più in forma e quindi anche magari più predisposta anche ad un approccio di natura sessuale”. 

Prima del tumore, prima della chemioterapia, prima  che tutto questo invadesse anche gli angoli più segreti della loro intimità, Cristina e Valerio stavano pensando concretamente alla possibilità di avere un figlio. Ci stavano provando.

La fertilità e quindi la possibilità di avviare una gravidanza però sono un altro ambito della vita di una donna – e di una coppia – che a volte può essere inquinato da un tumore ovarico.

Cristina lo sapeva e così, per cercare di preservare e tutelare questo sogno, si era sottoposta alla crioconservazione degli ovociti. Si tratta di una tecnica che prevede l’asportazione e il successivo congelamento di una porzione di tessuto ovarico, ricco di ovociti che, una volta reimpiantati, possono potenzialmente portare a una gravidanza.

“I medici tuttavia non sono riusciti a prelevarne la quantità sufficiente per poi garantirmi una futura gravidanza. Quando me l’hanno comunicato è stato terribile perché si è aggiunto al carico della diagnosi. Non riuscivo a vedere assolutamente nessun futuro. Vedevo i due metri che avevo davanti: era lui, invece, che guardava oltre”. Avere avuto accanto Valerio, che ha sempre continuato a credere in quel sogno e che non le ha mai fatto sentire nemmeno una briciola di colpa, ha aiutato tanto, tantissimo Cristina.

Per continuare ad alimentare quell'idea, Cristina ha quindi deciso di eseguire il proprio follow-up all’ospedale San Gerardo di Monza, il cui reparto di oncologia in età fertile era tra i più all’avanguardia.

I medici monzesi le avevano detto che avendo finito le cure oncologiche solamente da pochi mesi sarebbe stato più saggio aspettare prima di riprovare seriamente ad avere un bambino, però… . “Quando ho fatto la prima visita abbiamo scoperto che ero già incinta. Non è stata una sensazione bellissima perché ero più spaventata che contenta. Avevo paura di perdere il bambino o che avesse problemi perché era troppo presto. Temevo che il mio fisico non fosse pronto”. 

Cristina ha ben fissata in mente un’immagine che, a riguardarla oggi, sembra paradossale. Ricorda quegli istanti con la ginecologa di fronte all’ecografo: lei che scuoteva la testa e la dottoressa, esplosa in una gioia incontenibile, che la rassicurava che sarebbe andato tutto bene.

Aveva ragione. Cristina, infatti, è riuscita ad avere non uno ma ben due figli, entrambi sani. È riuscita a dare forma e concretezza al suo sogno. Suo, e di Valerio. E da allora lavora in prima persona per informare, sensibilizzare e fare divulgazione su questi temi. Tanto che oggi è anche diventata vicepresidente di Acto Lombardia.

“Il fatto di parlare, di non chiudersi in se stessi, di non vivere le conseguenze di un tumore, siano esse legate alla sessualità o alla fertilità, come se fosse una vergogna per me è stato fondamentale. Ho fatto proprio pace con quel momento della vita” ha continuato.

La cultura sanitaria – della prevenzione, della consapevolezza, della possibilità di affidarsi a psiconcologi così come ad specialisti – si fa parlando.

E Cristina ha iniziato a farlo da quel luogo dove le veniva più facile: casa sua. E, quindi, dai suoi bambini. “Fin da quando sono piccoli sanno che la loro mamma va a fare i controlli per sapere se sta bene. Non ho nascosto nulla, sanno che ho avuto una malattia e l’abbiamo chiamata per quello che è: un tumore”.

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