Malattia X, cosa ci aspettiamo e quando potrebbe arrivare: lo abbiamo chiesto a David Quammen, che aveva “anticipato” l’arrivo del Covid

In America Latina dilaga la febbre dengue con milioni di casi e centinaia di morti, da più parti arrivano notizie su casi di influenza aviaria. Poi ci sono il Covid-19, l’influenza e migliaia di altri virus che hanno il potenziale per dare origine a una nuova pandemia. Insieme a David Quammen giornalista, divulgatore e autore di “Spillover” abbiamo ragionato sulla malattia X, sulla nostra capacità di reazione a un’emergenza sanitaria e a cosa servirebbe per rafforzarla.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Kevin Ben Alì Zinati 5 Aprile 2024
* ultima modifica il 05/04/2024
In collaborazione con David Quammen Giornalista, scrittore e divulgatore.

Esistono diversi modi in cui la scienza misura il tempo che separa l’uomo da qualcosa di certamente in arrivo e potenzialmente pericoloso per la sua sicurezza, la salute e, perché no, anche la sua sopravvivenza.

Nel 1947, per esempio, un manipolo di scienziati e premi Nobel inventò un orologio per contare simbolicamente i minuti prima dello scoccare della mezzanotte. Prima, cioè, di un’autodistruzione per mano di un’esplosione nucleare, un attacco biologico o di temperature schizzate sopra ogni limite sopportabile.

Disporre di diversi strumenti per rilevare la distanza da una minaccia presuppone anche la misura dei modi in cui ci si sta preparando ad essa. I soli 90 secondi che oggi ci sarebbero tra noi e la fine del mondo, in questo senso, non restituiscono un quadro rassicurante.

C’è poi un altro orologio che abbiamo imparato a usare di recente. Qui, i numeri delle ore sono sostituti da quelli dei contagi e dei decessi dovuti all’azione di un virus o un batterio mentre il ticchettio dei secondi è rimpiazzato dai bip dei test Pcr eseguiti nei laboratori e dallo scricchiolio dei fogli delle diagnosi.

Paradossalmente meno astratto e simbolico del Doomsday Clock, è l’orologio che conta quanto siamo lontani da una nuova emergenza sanitaria. Da una nuova pandemia, insomma.

Oggi quell’orologio è tra le mani di tutti i governi del mondo e se presti attenzione sembra stia risuonando in maniera abbastanza forte e chiara. In Brasile, per esempio, ha scandito oltre 2,5 milioni di contagi da febbre dengue e 923 morti solo nel 2024. In Argentina invece ha battuto i 106 decessi, con più di 151mila persone contagiate.

Di fronte a tali numeri, l’Organizzazione panamericana della Sanità ha definito l'epidemia di febbre dengue in corso come un «motivo di preoccupazione» e se (ancora) pensassi che un simile fiume non possa oltrepassare gli argini traboccando fino alle nostre latitudini, ti sbaglieresti (ancora) di grosso.

Il rischio c’è già ed è già reale. Nel 2023 avevamo registrato oltre 300 casi di dengue e diversi sono già stati segnalati anche all’inizio di quest’anno, tanto che una circolare del Ministero della Salute avvertiva gli Uffici di Sanità Marittima Aerea e di Frontiera di alzare l’attenzione sulle merci importate dai Paesi dove è frequente e continuo il rischio di contrarre la malattia.

Il punto allora è se noi, quest’orologio, lo stiamo davvero ascoltando. Tradotto: ci stiamo preparando nel modo giusto a gestire l’arrivo di una nuova epidemia infettiva con il potenziale di espandersi in ogni angolo del mondo?

La prossima pandemia non è poi così lontana. Potrebbe essere ancora più forte e devastante del Covid-19 e no, non siamo più preparati di quanto non fossimo a gennaio 2020. Sguardo amichevole, baffo sbarazzino lungo quanto tutto il labbro superiore e un castello di libri attorno, David Quammen è chiaro e deciso quando risponde a tutte queste domande.

Un frame della chiacchierata con David Quammen dal suo castello di libri in Montana, Usa.

Non usa toni allarmistici: spaventare non è il suo intento e non è nemmeno ciò che servirebbe. Dopo aver anticipato l’arrivo di Sars-CoV-2 in «Spillover» e averne poi ripercorso origini e diffusione in «Senza Respiro», ora il giornalista, scrittore e divulgatore statunitense vuole guidarci versi una giusta interpretazione di quest’orologio.

In una chiacchierata vivace e attenta tra Milano e i verdi paesaggi del Montana, David Quammen ha spiegato un concetto decisivo: quel ticchettio non ci separa da qualcosa di terribile che non consociamo, ci tiene lontano invece da qualcosa di potenzialmente rischioso contro cui dobbiamo ricordarci di possedere le contromisure necessarie.

Non siamo più preparati alla prossima pandemia di quanto non fossimo a gennaio 2020

David Quammen

Se è vero che siamo riusciti a metterci alle spalle i tempi più duri della pandemia e a trovare una forma di convivenza con il nuovo coronavirus, è altrettanto vero insomma che non possiamo – non dobbiamo – considerarla un evento unico e isolato.

Solo qualche giorno fa, la virologa Ilaria Capua aveva ribadito che la «malattia X» è purtroppo solo una questione di «quando». Non più tardi di giugno 2023, invece, era stato lo stesso David Quammen a scriverlo sul New York Times, scatenando tra l’altro il panico da più parti.

In quell’occasione, però, il suo dito aveva un bersaglio ben preciso che non era la dengue. “Oggi come allora dico che l’influenza aviaria H5N1 è quella che con più probabilità potrebbe dare origine a una pandemia. È difficile prevedere queste cose perché esiste un certo grado di casualità su quali virus possono penetrare negli esseri umani e quali di questi salti di specie si trasformeranno in focolai con 20 o 30 persone infette, in epidemie da 8 milioni di persone in un Paese o in pandemie con centinaia di milioni di contagi in tutto il mondo. Mettendo insieme le probabilità, gli scienziati di cui mi fido pongono l’influenza aviaria in cima alla lista per una nuova pandemia che potrebbe arrivare già «domani»”. 

Un domani che appare sempre un po’ più vicino se si mettono in fila gli episodi raccontati dalla cronaca scientifica. Non ultimo quello riportato a fine marzo 2024 dai Centers for Disease Control and Prevention statunitensi relativo all’infezione da A/H5N1 in un uomo originario del Texas.

Oggi l’influenza aviaria è quella che con più probabilità potrebbe dare origine a una pandemia

David Quammen

Il virus prelevato da campioni di materiale biologico del soggetto raccontava però molto di più. La particolare mutazione che portava con sé era associata infatti a un miglior adattamento ai mammiferi e dunque a una potenziale maggiore efficienza di replicazione nelle loro cellule.

Questo significa che il virus dell’influenza aviaria è già diventato capace di trasmettersi efficacemente da uomo a uomo e resistere agli antivirali disponibili? No: il rischio rimane basso, hanno spiegato i Cdc americani. Si tratta, però, di un ticchettio bello rumoroso.

“Gli serve solo una mutazione giusta – continua Mr. Quammen, mentre con gli occhi cerca il mio sguardo dall’altra parte dello schermo che ci separa – Se H5N1 raggiungesse gli adattamenti che gli permettessero non solo di passare dagli uccelli ai mammiferi e di uccidere occasionalmente questi ultimi, cosa che sta facendo in tutto il pianeta, ma di riversarsi anche negli esseri umani, cosa che sta facendo, trasmettendosi facilmente da un essere umano all’altro, potremmo davvero avere una pandemia di influenza aviaria. Non sappiamo esattamente quali e quante siano necessarie per raggiungere questo obiettivo ma con poche mutazioni la pandemia da influenza aviaria potrebbe arrivare a brevissimo”. 

Dengue e influenza aviaria sono soltanto due delle possibilità. La prossima pandemia potrebbe anche partire da un altro coronavirus. Potrebbe originarsi da un altro Paramyxovirus o un diverso tipo di virus influenzale. Tutti questi agenti virali a RNA sono altamente adattivi e mutevoli. Gli animali di tutto il pianeta ne sono portatori e noi entriamo in contatto con quegli animali.

A prescindere da quale sarà, però, Mr. Quammen è stato netto nel dire che si tratta di un problema urgente che va affrontato meglio. “Ah, a proposito – interrompe – non chiamarmi Mr. Quammen, chiamami David”. 

Gli scienziati di cui mi fido credono che il prossimo grande evento potrebbe arrivare già «domani»

David Quammen

Vuole azzerare le distanze, David, e trasmettere il messaggio in modo ancora più forte perché sussurrato non da un «Mr. qualcuno» ma da David, una persona di cui abbiamo imparato a fidarci. È comunicazione della scienza, baby. “Sì, sì, sì: la prossima pandemia potrebbe essere più devastante”. 

Il suo ragionamento è lineare. La Sars si è diffusa nel sud della Cina nel 2003, passando rapidamente dal delta del fiume Pearl a Hong Kong e poi da qui attraverso l’aeroporto fino a Toronto, Pechino, Hanoi e Singapore. Ha ucciso una persona su dieci infettati: su sole 8000 persone contagiate, ne ha uccise 800.

Le buone misure di sanità pubblica ne hanno interrotto l’avanzata e sono riuscite a disinnescare il rischio di una pandemia pronta ad esplodere. “Alcuni dicono che la Sars si è esaurita: no, è stata fermata da esperti di sanità pubblica, scienziati e da misure che l’hanno contenuta. E siamo stati fortunati perché pur essendo estremamente letale, uccideva 1 persona su 10, ma non era trasmissibile come Sars-CoV-2”

La prima Sars non aveva, cioè, la capacità di passare da una persona all’altra in maniera asintomatica: non c’era quindi la cosiddetta trasmissione silenziosa che abbiamo tristemente sperimentato con Sars-CoV-2, e che per esempio contraddistingue anche la dengue.

“Se si combinano questi due diversi aspetti di Sars 1 e Sars 2, un tasso di mortalità di 1 su 10 contro quello di 1 su 100 e la capacità di trasmissione silenziosa e da persone sane, ecco che potremo avere una malattia molto più pericolosa di Covid 19. E, ancora una volta, è una questione di probabilità perché possibile, è possibile.

Dopo un breve scambio di visioni sulla pronuncia di «dengue» – una cosa a cui tiene molto, da curioso indagatore del mondo e suo attento narratore oltreché grande amante dell’Italia e della nostra lingua – che lui in inglese pronuncia «denghi», rifletto con David sul concetto di «malattia X». Lui la chiama «The Next Big One», il prossimo grande evento.

Entrambi concordiamo che si tratti di un ottimo un espediente retorico, uno strumento comunicativo messo a punto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per tenere sempre alta l’attenzione. La «malattia X» non era il Covid-19 e non sarà nemmeno la prossima pandemia: rappresenterà invece sempre quel puntino nero che vediamo avvicinarsi all’orizzonte.

Sul fatto che stia funzionando, però, c’è più di un dubbio. Certo, in Italia dengue e influenza aviaria, così come West Nile o Chikungunya sono nomi diventati ormai familiari ma questo purtroppo non significa che siamo anche pronti a gestirne l’eventuale arrivo.

Da più parti, in Europa come negli Stati Uniti, resiste un certo grado di sottovalutazione del rischio e dell’importanza delle misure di prevenzione o di igiene per evitare il contagio.

Provo allora a guardare il bicchiere mezzo pieno. Osservare l’avanzare della dengue e di altre virosi spinte dalla proliferazione di popolazioni di zanzare in aree del mondo dove prima non si erano mai viste favorite dall’aumento delle temperature forse può fare gioco a un’altra urgenza.

Forse, assistere alla rivoluzione della geografia delle malattie potrebbe in qualche modo essere un’ulteriore sensibilizzazione verso un’altra emergenza, per esempio il climate change. “Penso di sì. La situazione sta peggiorando in alcune parti del mondo anche a causa del cambiamento climatico. Alcune persone però sono propense a credere che la crisi del clima sia l’unico grande problema che abbiamo. I giovani, che ne hanno sentito parlare per tutta la loro vita adulta, sono convinti che la perdita di diversità biologica così come la diffusione di nuove malattie siano causate esclusivamente dal cambiamento climatico. E io dico no, aspetta, informatevi un po’ di più”.

Quello che vuole dire David Quammen è che ci sono tre grandi problemi su questo pianeta causati dagli esseri umani, tre questioni che come tre grandi fiumi scorrono da un’unica montagna innevata in modo indipendente e parallelo.

Uno sono i cambiamenti del clima, provocati dalle emissioni di gas serra delle attività umane. Il secondo è rappresentato dalla perdita di biodiversità, dovuto in buona parte alle attività estrattive, di consumo e degrado (pensa solo all’inquinamento da plastica) delle risorse terrestri per far spazio ad attività sempre nuove.

Il terzo problema, invece, è quello misurato dal «nostro orologio», ovvero la diffusione di vecchie-nuove malattie alimentate dal continuo contatto dell’essere umano con habitat non suoi.

“Tutti e tre i fiumi sono nutriti dallo stesso campo innevato che si sta sciogliendo già dalla cima della montagna, ovvero la dimensione della popolazione umana moltiplicata per il consumo. David sta facendo riferimento al concetto di I=PxAxT. Si tratta di una formula matematica che calcola l’impatto che abbiamo sull’ecosistema come esseri umani.

Spesso senti dire che siamo troppi su questo Pianeta e che la sovrappopolazione è la fonte dei tutti i problemi. Il punto però è un altro. Non è una questione di quanti siamo (P, come «popolazione») ma di quanto vogliamo consumare in termini di risorse (A, come «affluence», intesa come benessere, reddito e stile di vita) e quanto i nostri processi ci permettono di trasformare in modo efficiente quelle risorse (T, come «tecnologie»).

La controprova sta nell'ultimo report di Oxfam, secondo cui una bassissima percentuale di persone, più o meno l’1% più ricco del Pianeta, impatta (in questo caso in termini di emissioni di CO2) più del 66% più povero della popolazione.

In parole più semplici, significa che un americano ha un impatto maggiore rispetto a un nigeriano benché le tecnologie a disposizione in Occidente siano tendenzialmente molto più efficienti di quelle in Africa. Per risolvere la crisi climatica, quindi, non serve ridurre la popolazione che abita il pianeta.

Secondo David non possiamo dunque restringere il campo visivo solo su uno dei tre fiumi, come il climate change. È decisivo invece tenerli tutti e tre nella stessa visuale per non affrontarli a valle, quando avranno raggiunto già troppa potenza, ma per tentare di stopparli a monte, dove c’è più margine.

“Certo, i fiumi occasionalmente si uniscono e, per esempio, alcune perdite di biodiversità sono causate dal cambiamento climatico, alcune malattie emergenti o malattie riemergenti o malattie in diffusione sono veicolate dell’aumento delle temperature. La dengue – continua – è il migliore di tutti gli esempi di come il cambiamento climatico possa causare la diffusione di malattie umane”.

Nel frattempo, sono tornate alla mente le parole pronunciate da David all’inizio della chiacchierata: «Non siamo pronti a gestire una nuova pandemia». È un’affermazione troppo forte per non essere approfondita, circostanziata e capita.

Perché in un certo senso oggi siamo più preparati rispetto a gennaio 2020. Ora sappiamo che possiamo creare un vaccino a mRNA contro un nuovo virus e metterlo in produzione in un tempo molto più breve di quanto pensassimo. Abbiamo anche imparato quanto sia importante prelevare campioni da milioni di pazienti ed eseguirne il sequenziamento genomico: è così che abbiamo individuato e contenuto il dilagare delle varianti, da Alfa a Omicron.

“Ci sono due cose, però, che ci rendono meno preparati – sospira David, lasciando arrivare una ventata di amarezza anche al di qua dello schermo – Una è la perdita di fiducia nella scienza. Credo che ciò dipenda dal fatto che molte persone non capiscono cosa sia e come funzioni. Sono portate a pensare che sia un insieme di verità stabilite dimenticando che si tratta invece di un processo umano fallibile”.

Molti vivono così. Sono convinti che la scienza dica A, B o C, se poi all’improvviso C si rivela falso, ecco che si sentono legittimati a non fidarsi più degli scienziati perché «si sbagliavano». “Il metodo migliore che abbiamo per giungere a una verità è quello di utilizzare prove materiali, dati empirici, formulare ipotesi, verificarle e correggerle sulla base di nuove prove per procedere gradualmente verso una comprensione più accurata dell’universo fisico”. 

La gente ha sfiducia nella scienza perché non capisce cosa sia e come funzioni

David Quammen

Molti insomma non capiscono che la scienza non dice che A, B, C siano veri e che sempre lo saranno. La scienza semmai dice che siamo molto fiduciosi nell’ipotesi A perché negli ultimi 100 anni abbiamo avuto molte prove a sostegno e nessuna controprova; che siamo fiduciosi in B perché abbiamo avuto molte prove negli ultimi 50 anni e siamo abbastanza fiduciosi in C perché abbiamo raccolto buone prove negli ultimi 3 anni.

A man mano che avremo più prove su C, potremmo anche decidere che non si tratta di un’ipotesi così accurata e per questo potremmo sostituirla con D. “La scienza è costantemente provvisoria e tuttavia più affidabile di qualsiasi altra fonte di conoscenza umana. E si corregge quando sbaglia”.

Con il Covid 19, abbiamo visto bene che la scarsa fiducia nella scienza è dipesa anche dal dilagare delle fake news e di una comunicazione scientifico-sanitaria imprecisa, confusionaria e sbagliata.

David ha vissuto la pandemia negli Stati Uniti e ha un’idea ben precisa di chi sia una buona fetta della colpa: Donald Trump. “Lui e molti altri, ma non così famigerati, hanno detto bugie sulla politica e sulla scienza. Hanno reso le persone più arrabbiate e ignoranti piuttosto che più informate e intelligenti. Hanno incoraggiato i propri seguaci a diffidare della scienza e hanno reso il pubblico più desideroso di credere a drammatiche teorie del complotto non supportate dai fatti e nemmeno dal buon senso”.

L’altra ragione che secondo David concorre a rendere il mondo meno preparato a una pandemia rispetto all’inizio del 2020 è legata invece alle misure di sanità pubblica atte a contenere i contagi.

Può sembrare paradossale, ma decisioni come i vincoli sulle persone, il blocco di economie o la chiusura di ristoranti e scuole hanno avuto un caro prezzo tanto per i cittadini quanto per i leader politici. “Per questo non penso che sia così facile rifare tutto domani. Si innescherebbe un conflitto davvero grande, in particolare negli Stati Uniti, tra libertà individuali e salute pubblica, tra ciò che è il bene per una persona e la sua famiglia e il bene per la comunità. Quella tensione sarà sempre presente in caso di pandemia”. 

Le bugie hanno reso il pubblico più desideroso di credere a drammatiche e assurde teorie del complotto

David Quammen

Come fare, dunque, per aumentare la consapevolezza, rinnovare il senso di urgenza verso questi problemi e alzare il livello di preparazione? Sia in italiano che in inglese suona come la famigerata domanda da un milione di dollari, per questo David l’ha approcciata con lo strumento che meglio conosce, ovvero la comunicazione.

Un tema che a noi di Ohga è sempre stato molto caro. Certo, siamo giornalisti dirai tu. In mezzo a uno scenario d’emergenza come una pandemia serve una comunicazione sana, rigorosa, fedele, coinvolgente e accurata. Governi e istituzioni devono rivolgersi ai cittadini in maniera efficace ponendo attenzione agli effetti più oscuri che potrebbero innescare. Serve un linguaggio corretto e responsabile.

Tutte cose che troppo spesso sono venute meno. Un esempio potrebbero essere le parole dell’allora primo ministro Mario Draghi, quando nel luglio del 2021 disse che«un appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente. Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire».

Oppure, la facilità con cui un po’ tutti abbiamo pescato dall’universo tragico della guerra, che pure ha un proprio linguaggio e un proprio simbolismo, per raccontare un’emergenza sanitaria che, allo stesso modo, possiede un vocabolario specifico. Il fine è chiarissimo, non tutti i mezzi possono essere giustificati. “Spesso si è peccato di una narrazione troppo semplice. Politici e autorità devono fidarsi un po’ di più dell'intelligenza delle persone”. 

Parole forti che forse rivelano come la lezione più importante della pandemia si racchiuda nel concetto di consapevolezza. Quella che tutti noi dovremmo rafforzare per vivere in modo sano e sostenibile su questo Pianeta.

Politici e autorità devono fidarsi un po’ di più dell'intelligenza delle persone

David Quammen

David Quammen non ha fretta di chiudere la conversazione ma non più voglio abusare del suo tempo. Per un disguido sul fuso orario, mi ha già aspettato nella call Zoom per quasi un’ora così gli chiedo solo di chiarirmi un dettaglio dello studio da cui mi parla.

Alla sua destra, appoggiata a terra c’è quella che sembra una grande vasca trasparente e rettangolare. “Sì, lì dentro c’è un serpente, il suo nome è Boots. A volte lo lascio libero nell’ufficio e lui si arrampica sugli scaffali e tra i libri”. 

Si tratta di un pitone che lui e sua moglie hanno  adottato qualche anno fa. La precedente proprietaria lo aveva chiamato chiamava Zeus, come il dio greco, ma ai Quammen pareva un po’ troppo banale così ne hanno pensato un altro. “Serviva un nome che suonasse come «Zeus» («zuus» in inglese) per evitare che non si riconoscesse più, così abbiamo optato per «Boots», che si pronuncia «buuts»”.

David ha girato la camera del computer per mostrare meglio cosa c’è lì, alla sua destra: la gabbia di Boots.

David e sua moglie vivono dunque in Montana con un serpente, due cani e un gatto di nome Oscar come coinquilini.Oscar e Boots trascorrono molto tempo con me e il gatto è molto interessato al serpente. A volte si avvicina alla gabbia di vetro e lo osserva ma mi assicuro sempre che sia chiusa. Se poi Boots è libero e vaga per il mio ufficio, Oscar non ci può entrare. Non voglio scoprire come sarebbe la loro interazione” conclude David.

Perché ormai lo sappiamo: il contatto forzato tra specie diverse non è sempre una buona idea.

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.